Un'estate tutta per Marx poi rampante del Garofano

Un'estate tutta per Marx poi rampante del Garofano Un'estate tutta per Marx poi rampante del Garofano 1 principe ■ <■ i . FACCIA da ragioniere miope, testa da furetto, modi da principe rinascimentale. L'ultima volta che lo incontrammo, reduce dagli scandali Petromin e P2, Leonardo Di Donna correva, spinto poderosamente da Craxi e De Michelis, per essere nominato presidente dell'Eni, dopo aver fatto fuori personalmente - con le sue stesse mani, si potrebbe dire - quattro presidenti. Ci ricevette nel suo appartamento, al piano nobile di un palazzo storico di via Condotti, assiso su una settecentesca poltrona dorata, con in grembo un grande gatto persiano. Fughe di saloni, soffitti a cassettoni, antichi tappeti orientali, ceramiche, specchiere. Ci scappò di chiedere: «Ma lei quanto guadagna, dottor Di Donna?». E mal ce ne incolse. Si lanciò in una perorazione sui bassi stipendi dei presidenti dell'Eni (soltanto 80 milioni l'anno di allora) per giungere alla conclusione che con gli imbecilli e con stipendi da imbecilli la grande industria non si fa. Alla fine venne al punto: «Guadagno sui 6-7 milioni al mese». Era troppo eviden- te che non potevano bastare per pagare tutto quello sfarzo e subito aggiunse, carezzando dolcemente il persiano: «Ho avuto qualche problema da quando son diventato prima direttore e poi vicepresidente dell' Eni. Perché, quando facevo il professionista per conto dell'ente, io ero considerato il miglior fiscalista d'Italia. Guadagnavo forse dieci volte di più». Perchè mai avesse rinunciato a 70 milioni al mese non avemmo il coraggio di chiederglielo. Tanto lo sapevamo già. All'Eni dal 1957, giovane spiantato proVeniente dalla Puglia, il suo grande potere interno si consolida ai tempi di Cefis e nel successivo periodo di direzione finanziaria nella gestione di transazioni complicatissime, di decine di società estere, spesso create con l'unico ed esclusivo scopo di costituire fondi da pagare possibilmente, come si dice, estero su estero. Sentite come le origini di Di Donna Leonardo ce le raccontò lo stesso Leonardo Di Donna. «Mio padre era un commerciante di tessuti | girovago. Andò in America, ne tornò quindici anni dopo e aprì un negozio a Cosenza. Io studiai al Liceo Bernardino Telesio di Cosenza, dove ebbi tra i compagni Riccardo Misasi. Poi a Roma ho studiato giurisprudenza con. Rodotà. Già a tredici anni frequentavo la cellula comunista. Passai un'intera estate a leggere Marx». Passione marxista giovanile, perché nel 1982 il fiscalista pugliese è tutto proiettato sul craxismo, con il quale ha consolidato i rapporti durante lo scandalo Petromin, che ha bruciato il presidente lombardiano, come si diceva allora, Giorgio Mazzanti e il suo sponsor Claudio Signorile. «Fu Formica - ricostruì minuziosamente vellicando il pelo del persiano - a portarmi da Craxi all'epoca di Mazzanti all'Eni. Formica era contrario a quella nomina: anche perché lui è molto amico di Sette (democristiano oggi defunto, ndr), che avrebbe voluto veder riconfermato alla presidenza». Ma, ironia della sorte, la più antica amicizia socialista di Di Donna era Giacomo Mancini, che con le sue dichiarazioni sul caso Enimont ha fatto riaccendere l'attenzione intorno all'ente energetico e ha condotto ieri l'ex vicepresidente di fronte ai magistrati di Mani pulite. Chissà se i giudici milanesi hanno chiesto a Di Donna la verità vera sul siluramento di Mazzanti, sulle tangenti arabe che rientravano in Italia, sulle casse- forti violate, sulle intercettazioni telefoniche e ambientali, sulla P2, sulla tentata scalata al «Cor-, riere della Sera», sull'Ambrosiano e i collegamenti con l'Istituto per le Opere di Religione. Su un pezzo di storia italiana ancora oscura nella sostanza. Ogni volta sembra di riaprire un libro già letto mille volte, ma che ogni volta ha una trama più ricca, più intrecciata e imprevedibile. Su Mazzanti, ai tempi del gatto persiano che ormai faceva le fusa rumorosamente, Di Donna non ebbe peli sulla lingua: «I guai se li è chiamati. Un giorno, poco dopo la nomina, mi fa un discorso che mi lascia agghiacciato: guarda, mi dice, io sto facendo cose che neppure Mattei ha già fatto. Ebbi un brivido: si sentiva già unto dal Signore, una sindrome che colpisce i presidenti dell'Eni e che li porta a considerare l'ente come un feudo personale». Mentre la moglie incedeva al recupero del persiano attraverso una pesante tenda di broccato, il vicepresidente piduista ci raccontò come fu incastrato (da lui stesso?) il presidente piduista dell'Eni: «Mi telefonò Danesi (Emo Danesi, democristiano amico di Bisaglia e piduista, ndr) e mi disse che Gelli sosteneva di avere tutte le carte dell'affare con l'Arabia Saudita e minacciava di renderle note perché Mazzanti si era fatto negare al telefono. Mi feci dare il numero di Vienna al quale era reperibile Mazzanti. Due giorni dopo Danesi accompagnava Mazzanti da Gelli». Di Donna non fu nominato presidente dell'Eni. C'era ancora, vivaddio, Sandro Pertini che ne impedì la nomina. Ma impiegò pochi giorni a far fuori Umberto Colombo, che aveva occupato quel posto. Ci raccontò Colombo ancora annichilito: «Mi resi conto che la permanenza di Di Donna all'Eni come vicepresidente sarebbe stata un elemento d'ingovernabilità. Andai a dirlo a Craxi. Ne ebbi una reazione inattesa... veramente inaspettata». Umberto Colombo se ne tornò all'Enea, il conto «Protezione» e tutti i suoi fratelli, finora ignoti, avevano cominciato a colpire. Alberto Staterà Aveva rinunciato a 70 milioni al mese per guadagnarne sette come vicepresidente Eni fi Da sin. Giorgio Mantovani Rino Formica e Bettino Craxi

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