Voltaire e il Principe azzurro

Esce in Germania l'epistolario tra il filosofo e Federico il Grande Esce in Germania l'epistolario tra il filosofo e Federico il Grande Voltaire e il Principe azzurro «Maestà, non potrei vivere senza di voi» DNN IL NOSTRO CORRISPONDENTE andò alla fine lo incontrò doanni di legami epistolari, Ìltaire condì l'ossequio per Ferico il Grande di sarcasmo e velenoso scherno per la sua rpe prussiana: «Il figlio di un c inibale incoronato, cresciuto c i delle fiere nel cuore di un c serto, è diventato questa fir sza, ha trovato questa grazia r urale. E' un miracolo!», s isse. Senza curarsi troppo d la commozione, dell'entusias a, dell'ebbrezza timorosa che g confessava invece l'amico r «Potevo soltanto ammirarvi e acere». Ma quel giorno del 1 -0, l'amicizia fra il «dominati 3 del secolo» e il «letterato d secolo» cambiava rotta: assi leva finalmente quel carette ì «visivo», concreto, «materi s» che fino ad allora era ir icato. ino ad allora, Voltaire e Fedi co si erano appagati della pi bnda intimità che quattordi anni di corrispondenza regc re avevano alimentato e scippato. Ma, come svela la ratolta di quell'epistolario, curai da Hans Pleschinski e appek pubblicata dalla Haffmans Vepg di Zurigo, le relazioni fra il H e il Filosofo rimasero sempral limite della contraddizione dell'ambiguità. Per quarant'arji, Voltaire e Federico si purecchiarono e inseguirono conDitigi aspri e confessioni d'ai loniosa sintonia. Si minacciar io e si chiesero perdono, si scaniarono riflessioni e poesie, inviarono messaggi che parqano di due amanti («Sogno 0 Principe come si sogna ropria amata», confessatale). Al punto che qual- Roger Peyrefitte per io, non vi ha trovato sol- 1 segni di una semplice ia o di una «fratellanza intelituale», ma anche le tracce di ria passione omosessuale. In qijsta lettera di Voltaire a Federo del 27 marzo 1759, forse ricco «Sento di essere molto autonomo, felice. Ma mando voi alla mia felicità... Amo i vostri versi, amo la vostra prosa, il vostro spirito, il vostro pensiero ardito e saldo. Non potrei vivere senza di voi ma neanche con voi. Non parlo al re, all'eroe, parlo a colui che mi ha stregato, che ho amato e con il quale mi adiro di continuo». Era cominciato quando ancora Federico era «nelle grinfie di un padre grossolano». Nel 1736, quando Voltaire viveva nel Castello di Cirey con Madame di Chàtelet, il ventiquattrenne principe ereditario di Prussia gli aveva affidato il suo desiderio di mutarsi in «uomo di pensiero», la sua passione per le lettere e la filosofia. «I grandi uomini moderni saranno un giorno obbligati a voi, e soltanto voi dovranno ringraziare. Quando si infiammerà il dibattito se dovrà esser data la precedenza ai poeti antichi, sarete voi allora a far pendere la bilancia dalla parte dei moderni», gli scriveva da Berlino nella prima lettera colma d'elogi e di lusinghe, l'8 agosto del 1736. La risposta seguiva quel tono d'ossequio («Il mio cuore sarà sempre Vostro suddito... verrete adorato dai vostri popoli e sarete lodato in tutto il mondo»). Ma presto cominciarono gli scambi di riflessioni metafisiche, i lamenti per le superstizioni religiose, l'invio di piccoli saggi e poesie. In quegli anni di armonia eccellente, era soprattutto Federico a sollecitare gli incoraggiamenti che Voltaire non gli negava («Con voi, Berlino potrebbe diventare Atene»). Era soprattutto il futuro re a invocare l'attenzione dell'eru¬ dito e letterato, a confessargli il suo «desiderio di sapere», la sua voglia d'apprenderei; produrre: «La mia salute ancora debole mi impedisce di eseguire le opere cui penso di continuo, e il medico più orribile della malattia mi condanna a un allenamento quotidiano, tutto tempo che devo sottrarre alle ore di studio. Questi ciarlatani vogliono impedirmi di istruirmi, presto esigeranno che non pensi più, ma tutto sommato preferisco infermità fisiche all'intorpidimento dello spirito», scriveva il 3 febbraio 1739. Fino alla confessione dolorosa sul disagio di essere re, una ammissione d'impotenza quasi: «Volete sapere com'è la mia vita? Marciamo dalle sette alle quattro del pomeriggio, poi ceno, dopo di che lavoro, ricevo visite importune, e poi una serie di affari scialbi da sbrigare. Ci sono uomini ai quali devo dare una lavata di capo, teste calde da domare, ritardatari da esortare, impazienti che devo render docili, avvoltoi ai quali devo chiudere le ali, chiacchieroni da, ascoltare, muti da far parlare. E poi,devo brindare con chi vuol bere, devo mangiare con gli affamati, con gli ebrei devo essere ebreo, con i pagani pagano. Sono queste le mie occupazioni, e le delegherei volentieri a qualcuno, se questo fantasma chiamato gloria non apparisse tanto spesso davanti a me. In verità tutto questo è una grande follia, ma una follia della quale è molto difficile liberarsi. Come quando si è innamorati pazzi». Voltaire non avrebbe coperto quel disagio. Più tardi, anzi, si lamenterà perché il suo «principe della pace» si stava trasformando in un «salasso delle nazioni»: «Smetterete mai, voi e i vostri fratelli d'ufficio, i re, di distruggere questa terra?», gli rimproverava nel dicembre 1741. E poco dopo: «Temo soltanto una cosa, che possiate disprezzare un po' troppo gli uomini: milioni di animali senza piume che camminano a due zampe vivono per il loro rango molto lontani da voi». «Sono uno schiavo incatenato alla nave dello Stato», replicava il Re, e chiedeva un incontro: bramava «conversare col Filosofo», confessava. Dovette aspettare il 1750 e la morte della marchesa di Chàtelet, prima che Voltaire lo raggiungesse stabilmente a Berlino. • Fu il secondo inizio di quell'amicizia oscillante e controversa: appena arrivato alla corte di Potsdam, Voltaire si scontrò con gli uomini di Corte. Soprattutto con Pierre-Louis Maureau de Maupertuis, che nel '46 era stato nominato presidente dell'Accademia prussiana delle Scienze. Ne nacquero tensioni e incidenti che Federico non gradì. In quegli anni la corrispondenza fra il re e Voltaire tutti e due al castello di Sans Souci - si anima di litigi e insofferenze. Più d'una volta l'ospite francese è costretto ad umiliarsi: «Vi scongiuro di essere tanto magnanimo da controllare quale sia stata la causa del mio scontro con Maupertuis. Vi scongiuro di voler credere che dimenticherò questo dissidio | perché me lo comandate voi», implorava Voltaire il 27 novembre 1752. «La vostra sfacciataggine mi stupisce, dopo quanto aveve provocato rimanete testardo invece di riconoscervi colpevole! Non vi mettete in testa di farmi prendere una x per una u», replicava il Re. Lo implorava di nuovo Voltaire: «Che cosa sarà di me, che cosa devo fare? Disponete della mia vita, che vi ho consacrato e che rendete così amara. Sono l'uomo più infelice dei vostri Stati». Ci vollero mesi, prima che Federico dimenticasse e riprendesse a scrivergli in termini più miti. Ma fu una fortuna, per lui: perché nel 1757, durante la guerra dei Sette anni, Voltaire gli ridiede fiducia nella vita, lo salvò. Scriveva Federico il 9 settembre: «Se si può, si deve lottare per la patria e morire per lei. Se non lo si può fare è una vergogna sopravvivere... Il mio crollo non vi fornirà soltanto il soggetto per una tragedia». Lo confortava Voltaire: «Volete morire e non vi dico l'orrore doloroso che'mi incute questo progetto... Un uomo che non è nient'altro che re può ritenersi molto infelice se perde i suoi territori, ma un filosofo può rinunciare ai territori. Sapete che morirei più sereno se vi lasciassi qui e sapessi che mettete in pratica quanto avete scritto così spesso». E più tardi, il 13 novembre: «La vostra lettera mi ha fatto tremare, sembrate dire un triste addio, sembrate voler porre fine alla vostra vita. Mi riferisco agli ultimi tre versi, "Sono minacciato dal naufragio, /devo affrontare le tempeste,/ pensare vivere e morire da re". Questa vostra decisione ha fatto disperare un cuore come il mio, che non si è abbastanza rivelato a voi e che è sempre stato unito a voi, qualsiasi cosa sia successa». Federico non si uccise. Se ne andò prima quel Filosofo impudente che era riuscito a ridargli fiducia nella vita. Continuarono a scriversi fino all'ultimo, anche quando era soprattutto occasione di tristezza: «La memoria vi riporta indietro, vi fa ricordare com'ero un tempo. Se mi vedeste, al posto di un giovanotto che desidera ballare trovereste soltanto un vecchio debole piegato dall'età. Ogni giorno perdo un pezzetto del mio essere, mi muovo verso quel luogo dal quale nessuno ha riportato mai notizie», scriveva Federico. Poche settimane dopo, il 30 maggio del 1778, Voltaire se ne sarebbe andato. Emanuele Novazio E Diario di una attrazione fatale. Per la prima volta riuniti 40 anni di carteggio // re: «Devo essere ebreo con gli ebrei, pagano coi pagani» Il filosofo: «Temo che voi governanti disprezziate troppo gli uomini» Federico il Grande ritratto sul campo di battaglia Qui sopra: un'immagine di Voltaire ventiquattrenne

Persone citate: Emanuele Novazio, Federico Il Grande Voltaire, Ferico, Hans Pleschinski, Roger Peyrefitte

Luoghi citati: Atene, Berlino, Germania, Potsdam, Prussia, Voltaire, Zurigo