«lo malato privilegiato nella lotta all'Aids»

«lo, maialo privilegiato nella lotta all'Aids» In un articolo scritto poco prima della morte Arthur Ashe si racconta «lo, maialo privilegiato nella lotta all'Aids» L'ULTIMA DEL CAMPIONE IPRIMI sintomi dell'Aids li ho avuti su di un campo da golf a Miami, lo scorso dicembre, durante le vacanze di Natale. Sebbene mi spostassi con la macchinina elettrica, mi sentivo stanco e senza energia e ogni tanto avevo una tosse stizzosa. Dopo ogni lancio dovevo fermarmi a prendere fiato. Alle cinque del mattino dopo quel famoso giorno, mi svegliai in un bagno di sudore, scosso da brividi, con quasi 39° di febbre. Decisi di tornare a New York dal mio medico appena la febbre fosse scesa abbastanza da permettermi di viaggiare. Quello fu il mio incontro con la Pcp, la Pneumocystis Carimi Pneumonia. Diciotto mesi fa ero entrato a far parte di un gruppo chiamato un po' informalmente «i sopravvissuti a lungo termine» perché eravamo ancora vivi a più di tre anni dalla diagnosi definitiva di Aids. Io ero stato relativamente risparmiato dalle gravi complicazioni che colpiscono gli individui con Aids conclamato. Dopo un breve periodo in ospedale, mi ripresi. A differenza di molti americani, non dovevo preoccuparmi dei quattrini che occorrevano per curarmi. Avevo tre diverse assicurazioni e potevo dormire sonni tranquilli senza chiedermi come pagare i medici, l'ospedale e le medicine. Pcp è una sigla che ricorda discariche intasate dalla plastica. In realtà, quello è il Pvc - cloruro di polivinile. La Pcp è invece la più comune infezione opportunistica che colpisce i malati di Aids, la più frequente causa di morte. Pcp è diventata una metafora, la parola che ritorna nei necrologi dei gay o di chi fino all'ultimo vuole nascondere la sua omosessualità o la sua malattia. Proprio per questo i ricercatori si sono concentrati sulla Pcp e hanno effettivamente tirato fuori dei buoni farmaci. Oggi i medici sono praticamente tutti d'accordo sul fatto che è possibile prevenirla inspirando pentamidina. Io l'ho presa, ma ho sviluppato ugualmente l'infezione. La Pcp è comunque tutt'altro che chiarita. Di ritorno dalla Florida, andai dal mio medico al New York Hospital. In quell'occasione mi resi conto che anche il più bravo - e il mio lo era - non può fare una diagnosi sicura di Pcp semplicemente con il racconto dei sintomi e una visita accurata. Quando arrivai al Pronto Soccorso, il medico mi disse che la mia polmonite gli sembrava atipica e mi diede un antibiotico da prendere per qualche giorno. Il mio organismo non reagì, così mi fecero gli esami per vedere se non avessi la tubercolosi. Risultò che non l'avevo. Poi fu la volta di una broncoscopia. Mentre ero sdraiato e gorgogliante, sentii il medico che diceva: «Qui c'è una piccola ulcera. Sì, Pcp». E quella fu la prima volta che sentii quel termine applicato a me. Il trattamento abituale prevede tre settimane in ospedale, con una dose quotidiana di pentami¬ dina per via intravenosa. Il mio organismo rispose bene e tornai a casa una settimana prima del previsto. Il mio caso - come quello di milioni di americani che si ammalano gravemente - pone un grave problema al governo americano: come coprire una spesa sanitaria che quest'anno potrebbe sfondare il tetto dei tremila miliardi di dollari. Assicurato o no, io dovevo co- munque pagare di tasca mia le ottime cure che ricevevo al New York Hospital. Questo è un dato di fatto, non una lamentela, perché io sono uno di quei fortunati che si possono permettere tutte le cure, ben1 Oltre quel minimo per tutti che dovrebbe presto essere definito per legge. All'alba dell'era clintoniana, finalmente si discute di politica sanitaria nazionale. Il cambiamen¬ to dovrebbe essere vicino. Io mi sono trovato in anticipo sui tempi perché la mia prima assicurazione ha smesso di rimborsarmi i 18 mila dollari che ogni anno spendevo in medicine, facendomi però una controproposta: ordinarle direttamente dal loro fornitore. Il farmacista da cui mi servivo da 23 anni ha perso un buon cliente, ma l'economia americana ci ha guadagnato. Il mio assicuratore mi ha fornito anche un elenco di specialisti di New York tra i quali scegliere. Io non lo farò, perché mi posso permettere di andare dai miei medici, che sono diventati miei amici. Non ho voglia di andare adesso da uno sconosciuto. E' un dato di fatto che i ricchi possono scegliere gli ospedali migliori. Questo significa forse che ai poveri toccano i peggiori? Faremmo bene a preoccuparci per la qualità delle cure che ricevono. Di solito, quando le cose vanno male, non sono così pronti come i ricchi a fare causa al medico curante. A questo proposito, l'anno scorso mi era stato chiesto di denunciare la banca del sangue per la trasfusione che mi aveva infettato nel 1983. Ho rifiutato, non perché fosse una causa persa ma perché i processi non sono il modo migliore per migliorare l'efficienza del sistema sanitario. Nel mio caso, la compagnia di assicurazione avrebbe pagato il risarcimento e avrebbe poi alzato i tassi per tutti - e gli avvocati si sarebbero mangiati un terzo della somma. Come americani, dovremmo sentirci tutti a disagio al pensiero di quei 13 cent ogni dollaro che vanno a finanziare un sistema sanitario così scadente. Qualcosa va fatto - e subito. Non abbiamo altra scelta. Una politica sanitaria nazionale sembra essere nell'aria. La dobbiamo ai nostri figli. Arthur Ashe Copyright «Washington Post» «Ho sentito il medico diagnosticare la fine ma ho potuto pagare farmaci e assicurazioni per affrontarla» Arthur Ashe (a fianco) è morto di Aids lasciando una figlia (sotto). A destra un'immagine del suo funerale con la moglie (ripresa nella foto in basso) intenta a fotografare la bara Pochi giorni prima della morte per Aids, accaduta sabato scorso, Arthur Ashe scrisse l'articolo che pubblichiamo di seguito.

Persone citate: Arthur Ashe

Luoghi citati: Florida, Miami, New York