«Il Papa si sacrifichi per noi»

I vescovi del Sudan: rischiare la vita in zona di guerra sarebbe la sua missione I vescovi del Sudan: rischiare la vita in zona di guerra sarebbe la sua missione «Il Papa si sacrifichi per noi» «Il Vaticano gli ha vietato di venire a Juba, città martire» «Non è vero che arrivarci è impossibile, ijet Onu lo fanno» SOROTI DAL NOSTRO INVIATO Papa Wojtyla scende oggi a Khartoum, per un «blitz» di nove ore, ma i vescovi del Sudan Meridionale protestano: avrebbe dovuto atterrare a Juba, la «città martire» dei cristiani sudanesi, anche a rischio della propria vita. E - accusano - il Papa avrebbe voluto, ma è stato sconsigliato dai suoi collaboratori. Emerge così una profonda frattura fra una parte della Chiesa, quella presente nel Paese - missionari, vescovi, e altre confessioni cristiane - e la Santa Sede, sensibile alle implicazioni diplomatiche, tradizionalmente prudente e attenta alle conseguenze mondiali di un braccio di ferro con il regime di Khartoum, collegato con Teheran. Ma Joseph Gasi, vescovo di Tombora e Yambio, nella morsa delle truppe governative, e soprattutto Paride Taban, vescovo di Torit, riconquistata dal regime, non hanno dubbi. «Dal momento che il Papa in Uganda ha visitato Namugongo, santuario dei martiri del Paese, avrebbe dovuto nel suo viaggio in Sudan fermarsi anche a Juba, che è la nostra Namugongo. Trecentomila persone stanno morendo lì, i soldati ne hanno massacrate a migliaia, sono i martiri sudanesi. Ancora oggi - dice mons. Taban - posso testimoniare dei molti corpi che galleggiano nel Nilo, senza che nessuno ne sappia nulla. Ci auguriamo che il Papa si renda conto di che cosa vuol dire una persecuzione. E' difficile capire certe situazioni se non le si vive». Abbiamo incontrato Paride Taban a Rampala, dove si trova sotto la discreta protezione dei Servizi segreti ugandesi; sa che i sudanesi sono sulle sue tracce anche qui. «Se mi arrestassero non so se rimarrei vivo. Sono un vero problema per il governo di Khartoum, so di essere ricercato». Alto, asciutto, il volto incorniciato da una barbetta sottile, Paride Taban, 57 anni, appartiene all'etnia «Madhi», la stessa che nel secolo scorso si sollevò vittoriosamente contro gli anglo-egiziani. Vive nei dintorni della sua diocesi; in città non può mettere piede. «La mia parrocchia è la mia jeep - dice sorridendo -, vivo da solo, porto con me la mia tenda, il mio sacco a pelo e tutte le carte e gli appunti». Ogni notte cambia dimora, per eludere i suoi inseguitori arabi. Non sarà, ovviamente, a Khartoum. Ma rimpiange che Giovanni Paolo II non si rechi a Juba, nella cui cattedrale ogni notte dormono tremila persone, «un odore inumano». E altre migliaia sono accampate nella residenza del vescovo, perché accusa - i soldati hanno distrut¬ to le loro case per terrorizzarli, per impedire che aiutassero i guerriglieri. «Ho detto la mia idea al Papa e alla Segreteria di Stato. Se volete che il Papa sia compreso e rispettato fino in fondo, dategli la possibilità di andare a Juba. Quando ho parlato con il Papa mi ha dato la sua disponibilità a venire a Juba. Sono stati quelli intorno a lui a sconsigliarlo. Noi vescovi non siamo stati coinvolti nella decisione». Ma - chiediamo - non ci sarebbe stato pericolo? E l'aeroporto di Juba è agibile? Su questo punto sia mons. Gasi che mons. Taban concordano. Ecco le parole del secondo: «L'Orni può atterrare a Juba, e anche il card. Etchegaray è arrivato in quell'aeroporto. Seppure il Papa fosse andato a Juba per morire, questa sarebbe stata la sua vocazione di pastore». Marco Tosarti Lasciata l'Uganda, Giovanni Paolo II arriva oggi in Sudan [FOTOAPJ

Persone citate: Etchegaray, Giovanni Paolo Ii, Joseph Gasi, Papa Wojtyla, Paride Taban, Taban

Luoghi citati: Namugongo, Sudan, Teheran