La razza faccendiera fra vescovi e Rolls Royce

E La razza faccendiera fra vescovi e Rolls Royce PERSONAGGI DA MACHIAVELLI A LICIO GELLI cu tirai* ■ I*».... ì .'...! timi* E ROMA adesso che l'hanno messo in carcere, per favore, basta faccendieri. Basta anche perché con Silvano Larini e con quella sua arietta diffidente e scanzonata che viene fuori perfino dalle fotografie in bianco e nero; con quel fruscio cosmopolita di miliardi e di sottane, e atolli, e Rangiroa e Curacao, e barche bianco latte, drink giallo e vermiglio con la bandierina, servitori di colore e allegrissima, spudorata assenza di pregiudizi, ecco, la razza faccendiera ha davvero toccato i punti più alti della sua evoluzione. Avventuriero e bon vivant, poi conversatore, viaggiatore, sommozzatore (azzannato anche da uno squalo, secondo la leggenda) e «materiale percettore», secondo i giudici, di tangenti: per un personaggio come Larini, nemico delle convenzioni e così attento allo stile, la caduta e il carcere si potevano pure mettere nel conto. Ma una mesta e prevedibile sopravvivenza ai margini, no. Di tutti i faccendieri che la storia e la cronaca anche criminale hanno regalato a questo Paese, almeno per ora Larini sembra il più solare e il più cinematograficamente pirata. Forse nemmeno il più odioso. Quel suo indubbio esotismo modernizzante, sommato alla sincera mancanza di una anche minima dimensione, come dire, politica proiettano l'antico mestiere - è Machiavelli a scrivere per primo la parola «faccendiere» nell'anno 1513 con lo stesso significato di oggi - all'altezza dei tempi. E tuttavia la fondata supposizione che proprio Larini sarebbe uno dei beneficiari dello storico «conto Protezione» (1981), dove finiscono i soldi dell'Ambrosiano di Calvi, ne conferma d'altro canto le solidissime radici e lo mette in ideale continuità o comunque alla pari con un ambientino che non si segnalò in quegli anni per civiche virtù. I grandi padri - e anche i figli e i fratelli - dell'epopea degli Anni Ottanta. Licio Gelli, per dire, variante più massonica che esoterica della professione. Oppure Umberto Ortolani, con agganci ecclesiastici e foto del cardinal Lercaro dentro il portafoglio. «Il gatto e la volpe», li chiamava la vedova Calvi parlando con il povero Roberto. Gente sveglia, passata già indenne nel fuoco di un sanguinoso cambio di regime. Soprat- tutto il Venerabile, che dopo essere stato un bel fascista aveva intuito le potenzialità anche economiche dell'anticomunismo, ha fatto scuola. Magari, adesso, gli dispiace di essere identificato in quel modo, però un po' faccendiere Gelli lo era. I soldi; gli affari; la solidarietà, «che è l'architrave della nostra organizzazione...»; il culto delle conoscenze finalizzate, per cui io-ti-presento-queUo-che-tipresenta-quello; le telefonate, fatte davanti a terzi, che erano tutto un «caro ministro», «caro sottosegretario» («e mentre parlava mi faceva l'occhiolino» ha testimoniato il poliziottogastronomo Federico Umberto D'Amato). Insomma, tutto questo, e anche un po' di personalissimo spirito d'avventura, facevano di Gelli se non il capostipite - che la figura, come si è visto, è ben più remota - alme¬ no un presidente onorario della categoria. Giubilato, si può dire, da una nuova leva di faccendieri. Anch'essi dal ruolo sociale piuttosto vago, contigui più al potere che alla politica, commercianti di informazioni con una disponibilità economica imprecisata, comunque notevole: per se stessi e per gli altri. Nuove figure che la pigrizia giornalistica ha subito bollato senza problemi, e senza rimorsi, come «faccendieri». E c'è da credere che anche loro adesso non saranno contenti, ma a giudicare da quintali di carte prodotte dalle commissioni parlamentari, ecco, a Flavio Carboni e Francesco Pazienza va comunque riconosciuto il merito di aver immensamente arricchito e aggiornato la fenomenologia e se si vuole anche l'antropologia culturale del faccendiere nella breve, ma intensa, stagione dei primi Anni Ottanta. Quando entrambi finiscono per ruotare, pure con rivalità e successive recriminazioni, intorno a un Calvi sempre più disperato pro¬ mettendogli aiuto e amicizia. Non che i caratteri, le tipologie, i tic dei due «consulenti» questa la parola che s'immagina preferita - siano indifferenti ai fini di un eventuale trattatello. Da atti, memoriali, confessioni, testimonianze e intercettazioni telefoniche e ambientali, da lui predisposte e non, Carboni, che si tira regolarmente appresso la definizione di «faccendiere sardo», risulta senz'altro più umano, adulatore e finissimo psicologo. Infaticabile come un motorino, procura con la stessa naturalezza pecorino sardo, incontri con poUtici, vescovi e donnine allegre. Anche lui gioca con il telefono davanti alla persona che vuol colpure: si fa chiamare dal fido Pellicani, che è in cucina, quindi «Onorevole», «eccellenza», «domani l'appuntamento...». Adesso Carboni si fa fotografare in kimono, mentre fa karaté. Ma un giorno di maggio deU'82 aveva in casa un discreto numero di persone importanti, anche un futuro segretario de. Più o meno daUo stesso materiale, Pazienza appare invece più seduttivo che comprensivo; di bell'aspetto, gioca sul fascino istituzionale del mistero, del potere occulto, dei servizi segreti. Gioca, ma intanto accompagna un segretario deUa de - e dagli - dal generale Haig. «Francesco - lo presenta il suo Tacito, che era l'imprenditore romanesco Giardili - dà un cervello diabbolico, parlava cinque o sei lingue e se li incartava tutti». Puntando sulla velocità, sugli aerei, esibendo Rolls Royce. Non manca anche a Pazienza una certa componente ludica, festaiola. E più di Carboni comprende il valore della comunicazione. Ma è proprio la smania di «fosse fà l'articoletto», come scolpisce Giardili, a perderlo. Bruciati quei due faccendieri di classe e di vocazione, la specie dilaga, si articola - ahimè «sul territorio» e forse addirittura si democratizza. Con la sua barbetta, il suo passato di arbitro di calcio e di alpino, la comparsa di Adriano Zampini, il faccendiere deUo scandalo di Torino (1983), segnala in qualche modo la proliferazione del modello sul piano locale, circoscrizionale, comunale, provinciale e regionale. Zampini scrive pure un libro in cui ricorda, ammonisce, dà consigli, tira in ballo il sistema. Definisce l'utilità dei viaggi di piacere per concludere affari, individua parametri, luoghi e status symbol tipo Rolex d'oro. Tangenti? «Beh, io le chiamo provvigioni...». Ma sì, provvigioni, risorse, e così via, todosfaccenderos, fino a Tangentopoli. E adesso vedere «dentro Larini» è un po' come aver detto: «Fuori i pagliacci!», i parvenu, i piccoli trafficanti di quartiere. Con questo milanese daUa pelata cotta dal sole dei Tropici la stagione dei grandi riprende in pieno. Che sia l'ultimo, però. Filippo Cec carelli Il capo della P2? Il presidente onorario di tutta la categoria Zampini: «Tangenti? No, sono provvigioni» E oggi Carboni si fa fotografare mentre si allena al karaté A sinistra: Licio Gelli Sotto: Flavio Carboni A destra: Umberto Ortolani A sinistra: Francesco Pazienza Qui sopra: Adriano Zampini

Luoghi citati: Roma, Torino