Così il nostro amore vinse il lager

il caso. Eccezionale documento dopo cinquantanni diventa libro il caso. Eccezionale documento dopo cinquantanni diventa libro Così il nostro amore vinse il lager Fra i segreti di una lettera di 800pagine DROMA NA lettera d'amore lunga ottocento fogli. Scritta giorno per giorno e a volte ora per ora nel clima atroce dei lager nazisti. Marisa Lauretti, la destinataria, è imbarazzata: l'autore della lettera-diario dal lager, Enrico Zampetti, entrato poco più che ventenne nel campo di Deblin, che l'amava e che nel '46 sarebbe diventato suo marito, è morto nell'88. Quel documento sta per essere pubblicato in volume, sia pure ridotto a circa la metà: Dal lager. Lettera a Marisa (Edizioni Studium). Lei vuole rimanere nell'ombra. Si nasconde dietro gli impegni familiari, i tre figli e i nove nipoti che il sabato e la domenica vanno a farle visita. Si scusa per il poco tempo che ha e i disturbi agli occhi che le tolgono serenità. Non vuole mostrarsi, tanto meno tirare fuori una foto di quando era giovane e quella sua bella faccia bruna, meridionale, dai lineamenti regolari, rimase incollata nello zaino di Enrico Zampetti per tutti i «708 interminabili giorni» della loro separazione. Nella grande casa del quartiere Nomentano a Roma, piena di libri e di ricordi, dove ha vissuto quarant'anni vicina al compagno della sua vita, vorrebbe che solo di lui si parlasse. Ricorda: «Ci eravamo conosciuti che avevamo 18-19 anni. Lui era già iscritto all'università. Io avevo preso il diploma magistrale. Ci presentarono degli amici, e subito ci siamo piaciuti. Non so come si dice ora, ma noi pensammo che quella era la storia della vita, ci fidanzammo un po'. Venivamo da famiglie simili! Io ero orfana di padre, vivevo in Prati con mia madre e una sorella. Lui era figlio unico, di abruzzesi trapiantati a Roma. Ci univa una forte religiosità. Ammiravo molto la sua cultura, la sua intelligenza. Nel '41 fu chiamato alle armi. Aveva vent'anni e andò a fare il corso di bersagliere. In quel periodo venne in licenza due-tre volte. Sembrava che niente di drammatico si profilasse al nostro orizzonte. Invece nel '43, alla vigilia dell'8 settembre, fu mandato a Corfù, a combattere i tedeschi». Catturato, Zampetti, fu internato in vari lager, dalla Polonia alla Germania, da Deblin a Oberlangen, da Duisdorf a Colonia. Dal primo giorno, il 31 ottobre 1943, nello Stalag 307 a Deblin, comincia a scrivere alla sua fidanzata la lunga lettera che non sa quando terminerà, né se le sarà mai recapitata né se potranno mai leggerla insie me. Ma scrive, scrive. A costo di grandi sacrifici. Una volta, per trovare la carta e l'inchiosto cede la sua razione di pane in cambio di qualche foglio. Per trovare nella baracca un punto dove la luce sia sufficiente, e lui non si debba accecare nella penombra. Per ricavare un momento di silenzio e di raccoglimento. A volte, quando è troppo sfinito, lascia uno spazio bianco, come pro-memoria. Il vero timore è che le perquisizioni trovino il proibitissimo documento. Mette in atto tutte le astuzie per non essere separato da quelle carte che sente come una parte di sé, non solo la testimonianza insostituibile dell'esperienza che sta vivendo, ma anche lo strumento che gli permette di controllare emozioni e scoramenti, di mantenere dignità e speranza, «di salvare la mia identità attraverso la presa di coscienza delle vicende di cui ero vittima e protagonista». Una volta gli trovano la lettera, e davvero il suo cuore trema; ma per fortuna scriveva su fogli bianchi, taccuini, pezzi di carta qualsiasi, che non davano l'idea di una continuità, di un vero diario. Per fortuna, inoltre, nei suoi scritti non parlava mai di politica, non dava mai giudizi sulle persone e sui capi, tanto meno sui tedeschi e le autorità del campo. La lettera non gli fu ritirata. Scorrevano nelle sue righe - come in presa diretta, e questo rende il documento straordinario anche per gli storici - i ricordi, le nostalgie, gli struggimenti d'amore così come una qualsiasi circostanza esterna suggeriva, e l'ossessione per il cibo, l'ansia di spiritualità, l'approfondimento dei valori religiosi, l'emozione per un imprevisto giorno di sole, la brutalità delle ispezioni, i momenti di solidarietà e quelli umilianti della scoperta dei lati oscuri e bestiali nell'uomo, le beghe, i pettegolezzi, le riflessioni durante la messa, la paura del domani, il freddo, la miseria della passività, l'attesa spasmodica della posta e dei pacchi da casa, l'orgoglio per quel rifiuto di rinnegare fedeltà e lealtà all'esercito italiano legalitario come in continuazione gli veniva richiesto e che gli avrebbe garantito l'uscita dal lager. Una scelta - il lager come scelta che migliaia di ufficiali fecero come lui, andando incontro alla morte, a nuove sofferenze, ai campi di punizioneMarisa non sapeva niente di questo fiume di emozioni che per lei si raccoglieva. Claudio Sommaruga, uno dei compagni di Zampetti nel lager, ricorda: «Marisa divenne presto, per noi, il simbolo delle nostre fidanzate, spose, sorelle, mamme troppo lontane, a noi strappate da anni di dolore e di nostalgia e con le quali potevamo illuderci di comunicare col pensiero, sola evasione che i nostri aguzzini non potevano intercettare. La "lettera a Marisa" era la lettera ideale che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere». A Marisa in quegli anni arrivavano soltanto gli scarni messaggi che i moduli forniti dal lager permettevano e che a volte impiegavano mesi di viaggio. «Io mandavo le mie lettere attraverso la Croce Rossa o qualsiasi altro organismo di cui venivo a sapere - racconta Marisa -. Si viveva per quelle lettere. Mi ero messa a lavorare, alla ragioneria centrale del ministero delle Poste. Vivevamo male anche noi. A Roma mancavano la luce, il gas, il pane. La borsa nera non era per tutti. Un litro d'olio costava 900 lire, io ne guadagnavo 500 al mese. Mia nonna diceva: condisci la pasta con l'acqua, sotto il rubinetto!». Che Enrico era vivo lo seppe, dopo la liberazione, da un sacerdote., «Si sparse la voce che era arrivato un religioso con tanta posta. Andai in Vaticano. C'era un favolo coperto di lettere. C'era ùhmare di gerite che ci girava intorno e frugava e sperava. Lì trovai la prima lettera che Enrico, libero, mi scriveva annunciando il suo rientro. Ci saremmo rincontrati nell'agosto del '45». Il diario-lettera lo portò lui. «Lo leggemmo insieme. Rivivemmo insieme quel tempo in cui il nostro dialogo era continuato, sebbene la voce dell'uno non riuscisse a raggiungere l'altro. No, quei suoi pensieri non mi fecero scoprire niente di nuovo in lui. Sapevo già tutto. Niente sarebbe più cambiato fra noi». La vita, il lavoro, i figli hanno occupato tutti questi anni. Finita la guerra, Zampetti è stato funzionario parlamentare pres so l'Assemblea Costituente e la Camera dei Deputati, poi diret tore della Biblioteca del Senato. E per tutta la vita ha scritto saggi di storia e di critica. Solo nell'80, ammalatosi e costretto a una lunga degenza, ha ripreso in mano la lettera a Marisa. Che non è stata riscritta. «Soltanto tagliata - spiega lei - nelle parti iniziali e finali. Purtroppo». Liliana Madeo «Nel campo mio marito spesso cedeva le sue razioni di pane per procurarsi carta da scrivere e inchiostro» "BIT" Enrico Zampetti ai tempi della guerra. Mandato a Corfù, venne catturato dai tedeschi e sopravvisse al lager scrivendo una lettera di ottocento pagine In alto: Enrico Zampetti e la moglie Marisa Lauretti in famiglia. Qui sopra: il Lager di Deblin. A sinistra: Marisa Lauretti ai tempi del suo fidanzamento La prima pagina di un documentò unico e straordinario: la lettera a Marisa scritta giorno per giorno durante la prigionia dal fidanzato, ora trasformata in libro

Luoghi citati: Corfù, Germania, Polonia, Roma