Mankiewicz, il domatore delle dive

Mankiewicz, il domatore delle dive Mankiewicz, il domatore delle dive Dal trionfo diLiz Taylor-Cleopatra ai piedi nudi di Ava Gardner Il grande regista morto venerdì a 83 anni: spiritoso, prepotente, schietto, mai appagato 1 UARDANDO al passato, mi considero un fallito», civettava nel 1987 a Venezia Joseph Mankie_ wicz, il gran regista morto l'altro ieri ottantatreenne nella casa di campagna vicina a New York dove viveva con la terza moglie Rosemary Matthews, lontano dal cinema. Fallito, lui? Il domatore dei divi più divi che aveva diretto film appassionanti o brillanti, premiati, proverbiali come Eva contro Eva e La contessa scalza, Giulio Cesare e Bulli e pupe, Improvvisamente, l'estate scorsa e Cleopatra, il narratore di psicologie complesse che avrebbe voluto essere psichiatra e che andò in analisi per guarire dalla passione devastante del poker e delle barche? Il primo cittadino americano nominato da Saragat commendatore della Repubblica italiana, in segno di gratitudine per i quattro film girati in Italia? Il creatore d'immagini assolute, Katharine Hepburn seduta come in trono nell'ascensore calante tra le carnose piante esotiche d'una serra, Liz Taylor sorgente dal mare in un costume bianco d'abbagliante luminosità o dominante Roma dall'alto dello spettacolare trionfo di Cleopatra, Ava Gardner a piedi nudi sulla spiaggia, Marion Brando implorante la fortuna ai dadi? Fallito? Mankiewicz era un uomo spiritoso, prepotente, schietto, con occhi celesti ancora infantili e bellissimi, molto intelligente, polemico: «Su Hollywood non mi son mai fatto illusioni, quindi non patisco delusioni». A Hollywood era ap¬ prodato nel 1929, a ventanni, chiamato dal fratello Herman che sarebbe stato uno sceneggiatore perfetto (anche di Quarto potere di Orson Welles, di Pranzo alle otto di Cukor), incaricato di scrivere o tradurre le didascalie dei film muti alla vigilia dell'avvento del sonoro: «Sono arrivato con il parlato, e me ne sono andato con la televisione». Il suo ultimo film. Gli insospettabili, realizzato in Inghilterra con Laurence Olivier e Michael Caine, è del 1972, ma gli inizi europei erano stati diversi. Il padre, professore d'origine tedesco-polacca, l'aveva spedito nella propria città natale, Berlino. Voleva che Mankiewicz studiasse in Europa per tornare poi a fare la carriera universitaria a New York: «Ma io m'innamorai della città: a teatro lavoravano Reinhardt, Piscator e Brecht, s'incontrava Christopher Isherwood... Cominciai a pasticciare col giornalismo, col cinema». Un'impronta teatrale e letteraria sarebbe rimasta incancellata nei suoi film, più attenti alla parola che ai valori visuali, eppure segnati dall'eccesso scenografico, da una stravaganza barocca o gotica. Con gli scrittori però non andò d'accordo, né come produttore d'una ventina di film, né come sceneggiatore, né come regista: ridusse alla disperazione Scott Fitzgerald bocciandogli la sceneggiatura di Tre camerati di Borzage, fece infuriare Tennessee Williams materializzando nelle immagini più esplicite l'allegoria della morte di Sebastian in Improvvisamente, l'estate scorsa. Neanche i suoi personali bi¬ lanci, del resto, suonavano positivi. Democratico sincero, sensibile ai problemi sociali, presidente del sindacato dei registi, nella «caccia alle streghe» dei Cinquanta venne subito sospettato d'essere comunista e prudentemente se la filò in Italia a dirigere quel capolavoro del «mèlo» che è La contessa scalza: «Il film che ho più amato. Doveva essere la storia di Ava Gardner sposata con un aristocratico italiano omosessuale. Invece, per via della censura, l'omosessuale si trasformò in impotente». Non dimenticava come la Mostra del cinema avesse rifiutato il suo Giulio Cesare: «Era la più alta prova d'attore di Marion Brando. Fu grandissimo, ebbe il massimo premio teatrale inglese: ma a Venezia respinsero il film con giudizi molto sprez¬ zanti». Di Cleopatra, girato a Cinecittà, neppure voleva parlare: «Non è mio, non lo riconosco. Io volevo che Cleopatra fosse due film di due ore ciascuno. Zanuck massacrò il nostro lavoro. Liz Taylor e Richard Burton dicevano che la migliore interpretazione della loro vita era finita in pezzi nel cestino della sala di montaggio». Il successo non bastava, non lo appagava. L'intelligenza dell'insoddisfazione, l'asprezza dell'incomprensione, la sardonica suscettibilità dell'artista da vecchio hanno accompagnato Joseph Mankiewicz sino alla morte: «Non ho mai fatto un film come lo volevo io. Ho nostalgia della vita che non ho avuto». Lietta Torna buon i Joseph Mankiewicz con Liz Taylor sui set di «Cleopatra» «Non ho mai fatto un film come lo volevo io»