Locatelli: la Rai? Un'alcova di Stato

Locatelli: la Rai? Un'alcova di Stato Locatelli: la Rai? Un'alcova di Stato «Ai politici interessano i favori, non i programmi» al gioco, non pago i prezzi, non lascio briglia sciolta al matriarcato delle zarine. Sia gentile, i nomi li lasciamo da parte, perché non è il pettegolezzo che cerco». I fatti vanno pur corredati. «Cominciamo dal primo fatto, mettendo da parte questo sfondo di signore...». Ma è vero che erano tre, potentissime, e che venivano chiamate «l'albero delle tre zoccole»? «Questo non lo so. Certo è che spesso ci si ferma ai soli interessi di denaro, di tangente, di sovrapprezzo, e non si tiene invece nel debito conto un fattore importantissimo: i rapporti di letto». Come no: alla Rai si parla abitualmente di un albero ginecologico del sottopotere. «Sono vari alberi, una boscaglia. Comunque mi insedio e ricevo la prima telefonata. E' il comunista Angelo Romano, membro del Consìglio di amministrazione, che mi chiede ài assumere un tale. Romano, fra, l'altro, mi aveva anche votato contro, ma per la sua raccomandazione andavo bene». Non si sarà sorpreso? «Beh, almeno il tempo di levarmi il cappotto, che diamine. Passano un paio di giorni, e mi chiama Claudio Martelli, vicesegretario del psi: so che vuoi assumere il tal dei tali. Sappi che c'è il veto del partito. Come, il veto del partito? Ma siete matti? Chiamo Manca: non ci sto, Enrico, io non voglio veti... Manca si irrita: un veto è una cosa seria, dice. Se voglio posso Scrivere una lettera, ma non è una buona cosa. Scrivo. Già sono caduto in disgrazia». Rifiutò il veto? «Sì. Nel marzo 1987». Torniamo, se non le spiace, a quésto viavai di gentildonne. «E' semplice. La Rai, fin quasi al momento della mia uscita nell'89, non era ancora un prelibato boccone da appalti. Dopo, a quanto leggo, sarebbe scoppiata tangentopoli. Finché c'ero io era più un puttanaio e un marchettaio. La Rai è sempre stata come i partiti l'hanno voluta. Ai partiti non frega un accidente della cultura, dell'informazione e di tutte le balle che tirano fuori nei documenti ufficiali. Per loro la Rai era lo strumento per fare favori agli amici, ai grandi elettori dei loro collegi, un collegamento, una ripresina... E poi il puttanaio... E' uno spaccato storico. Un tempo il politico influente alla sua amorosa apriva una lavanderia. Poi il baretto con tabaccheria. Con il boom economico la boutique profumeria. E poi arriva l'epoca rampante: e allora ecco che arriva una processione di fanciulle o attempate, sceme o intelligenti, ma tutte sceneggiatrici, aspiranti registe, produttrici, autrici di situation comedy. Io, sa, mi diverto ancor oggi a guardare i rulli di coda o di testa, perché rivedo la geografia delle alcove. E del sottopotere». Come la cacciarono? «Credo per far posto al mio suc¬ cessore, che infatti ha navigato senza guai, in un mare che per me era tutto scogli e pescecani, soltanto perché ho avuto il torto di portare gli indici d'ascolto al livello di quelli attuali e di rimettere in sesto il magazzino». Lei è stato accusato di sperpero: un mucchio di miliardi finiti nel nulla. «Cretinerie. Le spiego. Il mio predecessore, invece di fare il magazzino aveva regalato i soldi della sua rete a Raiuno». Alt. Che cos'è il magazzino? «E' l'insieme di tutto ciò che si ha di pronto o in fattura, per il futuro. Per regolamento il magazzino deve essere pari al 140% di quello che si trasmette. Arrivo, e vedo che è il 70%. Allora vado da Agnes e gli faccio vedere come stanno le cose. Agnes mi autorizza a sforare sui bilanci venturi, anche se non può farci riavere indietro i soldi che erano nostri, perché ormai se li sono spesi». Sì, ma perché la cacciarono? «Cacciarono me e tutto il mio staff per mettere una persona di totale affidabilità, mentre io ero totalmente inaffidabile. Furono costretti ad aspettare, perché con noi la rete volò al successo: Arbore con "Indietro tutta", Funari a Mezzogiorno, Pippo Baudo che io riportai alla Rai dopo un pranzo in una trattoria di campagna e che faceva 12 milioni per sera, Giuliano Ferrara con il "Testimone" che raggiungeva i cinque milioni... Erano cose mai viste». Però era condannato. «Sì. Assumevo quelli col veto e non obbedivo alle raccomandazioni...». Dio mio, Locatelli, che uomo virtuoso... «No. Nessuna virtù. Se qualcuno mi proponeva una persona capace di lavorare, io non avevo nulla in contrario. Mi rifiutavo di dar lavoro, ovvero soldi pubblici, a certe capre che mi volevano imporre. Allora cominciarono a farmi capire che la mia rete andava male con certe facce storte: poca informazione... Non c'è cultura... Gli ascolti sono bassi...». Chi la lavorava al fianco? «Beh, un fan sincero delle mie dimissioni era lo stesso presidente Manca. Un giorno mi fece trovare, scritta con la sua grafia sulla sua carta intestata, la lettera con cui io mi sarei dovuto dimettere. Avrei dovuto scrivere ad Agnes che accettavo l'incarico di assistente speciale di Manca e che così concludevo la mia esperienza di corettore della rete». Elei? «Buttai la lettera. Stringevamo i denti e andavamo avanti, ma vedevo da me che tutta la situazione aziendale diventava terribile». Cioè? Che cosa vedeva? «Vedevo che dentro l'azienda non era quasi possibile produrre. Le troupe della Rai sono come i musicanti di prova d'Orchestra di Fellini: dottò, mo' staccamo per la mensa, dottò la squadra deve riposa... E così, se vuoi produrre qualcosa, se vuoi girare un minuto di filmato, non hai che una risorsa: andare in appalto. Lì è il buco vero: mille piccoli sovrapprezzi, mille raccomandazioni andate a segno, producono danni per decine di miliardi». Lei è stato anche inquisito per l'affare del magazzino dei Cecchi Gori. «Inquisito e prosciolto, come tutti i direttori di rete. Quella fu una storia tutta condotta dalla direzione generale, noi non c'entravamo niente. I film che una rete manda in onda li compera la struttura inter-rete. E ti leva i soldi dalla cassaforte: io andai fuori di 70 miliardi, ma di questi una quarantina era il prelievo interrete per i film». E il suo magazzino? «Se l'è goduto Sodano, il quale ha sfruttato "Beautiful", che gli ho fatto trovare io a pochi dollari e che lui ha dovuto comperare a quattro volte tanto. E che alla fine si è fatto sfilare da Berlusconi». Non mi dica che programmare «Beautiful» sia un'impresa di cui l'ente pubblico può andare fiero. «Dipende dall'uso: noi lo mettevamo nel primo pomeriggio, e lo seguiva un pubblico misto, con molti professori e persone colte. Certo, l'idea di sfruttarlo in prima serata...». E i rapporti con Minoli come erano? «Non buoni. Minoli, per motivi che non ho potuto né capire né scalfire, costituisce una repubblica autonoma e amministra per suo conto una somma che ai miei tempi si aggirava sui 15 miliardi. Le sue amicizie e parentele seno note. La sua indipendenza anche. Era sicuro di diventare lui direttore di rete e invece si trovò la strada sbarrata da Giancarlo Go- verni, che vantava un tasso craxiano più alto». Fu Governi a imporle Stefania Craxi e la sua ditta? «No. Stefania Craxi, lo posso garantire io che dai craxiani sono stato massacrato, è una che lavora con un'impresa che fa proposte buone a prezzi convenienti. Con me lavorò tre volte. Bocciai tutti i suoi progetti che non mi convincevano e accettai quelli buoni...». Le sembra decente che una persona della famiglia Craxi chieda lavoro a Rai2, dove tutti si sdraiavano per terra soltanto a sentirla nominare? «Anch'io le dissi che non avrebbe dovuto cercare lavoro da noi. Ma poiché lei lo cercava ovunque, la ingaggiai quando ritenni di farlo. E allontanai Governi dalla rete quando mi accorsi che aveva dato lavoro alla Craxi per suo conto, facendomi trovare di fronte al fatto compiuto. Lì, m'incazzai». Poi però c'era il giro delle grandi dame... «Era un giro che portava a una emittente privata. Una guerra terribile: in pratica la nostra rete serviva a dare ima mano a una piccola rete privata». Lei ne parlava con Craxi? «Io Craxi non lo conoscevo, quando diventai direttore. Me lo presentò un amico al ristorante e parlammo di cinema. Poi gli dissi che non ero soddisfatto dei metodi che vedevo imposti. E gli dissi che non ero affatto disponibile a certi giochi. Craxi cadde dalle nuvole e disse che non sapeva nulla e mi consigliò di agire secondo ciò che mi dettavano la coscienza e la professione. E così feci. Mi massacrarono, anche se non fu personalmente Craxi». Chi la costrinse ad andarsene? «Lo decisi io stesso. Per restare, avrei dovuto fare una guerra dei cent'anni». Situazione da socialismo reale. «Certamente mi sembrava di impazzire. Ma non volli dare la soddisfazione di dimettermi alla loro maniera, di farmi arruolare in qualche fondo di magazzino con un titolo altisonante. Così presi carta e penna, scrissi al consiglio d'amministrazione e Biagio Agnes mi concesse una liquidazione decorosa e un contratto di collaborazione, che è scaduto. Vivo a Campagnano, alle porte di Roma. Ho cinque cani e tre gatti per giocare con la mia bambina e con mia moglie. Vivo tranquillo, lontano dalla Rai. Ma francamente, quando leggo quel che succede qualcosa mi si rivolta dentro». Paolo Guazzanti ujjzar Una immagine di balletto durante una trasmissione televisiva

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