Contrada ha perso il primo round di Francesco Grignetti

L'ex 007 è accusato di collusione con i clan. Il difensore chiede nuove indagini L'ex 007 è accusato di collusione con i clan. Il difensore chiede nuove indagini Contrada ha perso il primo round La Cassazione: pentiti credibili, resta in carcere ROMA. Bruno Contrada resta in carcere. La prima sezione penale della Cassazione ha convalidato il lavoro dei giudici di Palermo. E il funzionario del Sisde, accusato da quattro pentiti di essere una talpa della mafia, e per questo arrestato alla vigilia di Natale, non varcherà il portone del carcere militare di Forte Boccea. L'avvocato Piero Milio, difensore di Contrada, aveva provato il colpo grosso: chiedere alla Cassazione di scarcerare il suo assistito perché «non sussistevano indizi sufficienti» all'accusa. Se la Cassazione avesse accolto la richiesta, sarebbe stata clamorosamente sconfessata la procura di Palermo. Ma la Cassazione ha deciso di rigettare il ricorso: il racconto dei pentiti conferma la Cassazione - ha valore di prova quando le accuse si incrociano tra loro. La faccia dell'avvocato Milio si è trasformata in una maschera di delusione quando ha sentito che la Cassazione gli ha dato torto. «Chiederemo che si facciano nuove indagini. Finora abbiamo creduto ai pentiti. Ora chiederemo ai magistrati palermitani di sentire, nelle forme dovute, tutti i funzionari di polizia che hanno lavorato con Contrada per vedere se fosse possibile che avesse queste frequentazioni». La decisione della Cassazione è un'importante conferma del castello di accuse che ha portato in galera lo 007 di Palermo. Prove concrete della sua collusione con Cosa Nostra, e con Totò Riina in particolare, non ce ne sono granché. Ci sono le dichiarazioni dei pentiti, però. E su questa base i giudici palermitani hanno fatto arrestare Contrada. Ma c'è di più. Sul capo di Contrada i giudici fanno cadere sospetti ancor più gravi, al punto di scrivere del «grave e evidente rischio che l'indagato, ove lasciato libero, continui a fornire con danno gravissimo per le istituzioni un pericolosissimo contributo alle attività e ai fini dell'organizzazione Cosa Nostra, abusando delle molteplici conoscenze e relazioni di cui dispone in importanti apparati istituzionali». Su questo scoglio si è infranta anche la richiesta subordinata di Milio. L'avvocato chiedeva di scarcerare Contrada mancando la «pericolosità sociale» e la possibilità di «inquinamento delle prove». Figurarsi. Secondo i giudici di Palermo «è ragionevole ritenere che il Contrada non abbia receduto dai suoi rapporti stabili con Cosa Nostra e particolarmente con Riina Salvatore, attuale capo indiscusso dell'organizzazione e latitante da oltre venti anni». Anche in questo caso i giudici di Cassazione hanno dato ragione ai colleghi di Palermo. Certo, Totò Riina, detto «la belva», oggi si trova in carcere. Forse quel punto dell'ordinanza andrebbe aggiornato. Ma la sostanza non cambia. La difesa d'ufficio fatta dal capo della polizia Vincenzo Parisi a favore di Contrada non ha smosso i giudici. E' da un mese e mezzo che Bruno Contrada si trova in carcere. Un mese e mezzo in cui la sua carriera viene passata al microscopio. O meglio, al tritacarne. Vicecommissario, commissario, primo dirigente, capo di gabinetto all'Alto commissariato antimafia con Emanuele De Francesco - subito dopo la morte di Dalla Chiesa -, quindi dirigente superiore al Sisde (servizi se¬ greti). Fa carriera, tanto da diventare il terzo nella gerarchia. Si soppesano gli episodi, piccoli e grandi, che costellano la sua «storia professionale». Lo scontro con il questore Vincenzo Immordino, innanzi tutto, che nel 1981 lo aveva esautorato dalla guida della squadra mobile. Erano tempi duri, a Palermo. La mafia aveva appena ucciso Boris Giuliano e Contrada, l'amico, era guardato con sospetto dal nuovo questore. Perché Giuliano è morto - si domanda Immordino - e Contrada no? Allora è colluso con la mafia? Per misura di sicurezza, una notte lo fa chiudere con tutti i suoi uomini in una caserma e intanto fa un blitz con agenti arrivati da fuori città. La storia finirà con denunce e controdenunce sul tavolo di Giovanni Falcone, che manderà assolti entrambi: un giudizio salomonico, del 1984, che oggi viene esibito da Contrada come un attestato di garanzia. Ed è anche una sfida di archivi, tra accusa e difesa. Da una parte si riesumano una serie di attestati e benemerenze che partono dagli Anni Settanta. Dall'altra si rispolverano vecchi fascicoli dimenticati: la lettera di proteste del commissario Gentile, ad esempio, che lo descriveva come un funzionario troppo sensibile alle lamentele dei boss. Ma la vera partita si gioca sulle dichiarazioni dei pentiti. Sono in quattro ad accusare l'alto funzionario del Viminale. Quattro collaboratori della giustizia: Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese, Rosario Spatola e Tommaso Buscetta. Ecco cosa racconta il pentito Mutolo, nel gergo dei verbali giudiziari: «Rosario Riccobono mi disse: "Contrada è a nostra disposizione. Anzi, se la polizia ti ferma e ti portano in questura, chiedi subito di lui, a cui ho già segnalato il tuo nome". Il Riccobono mi aggiunge che il Contrada, in occasione di varie operazioni di polizia finalizzate alla sua cattura, lo aveva avvertito». Francesco Grignetti Secondo i giudici «c'è il pericolo che possa avere nuovi contatti» Di fianco Bruno Contrada, dirigente del Sisde a Palermo. Sopra il capo della polizia, Vincenzo Parisi

Luoghi citati: Contrada, Palermo, Roma