Ritorno nei Passi perduti di Igor Man

Ritorno nei Passi perduti Ritorno nei Passi perduti E Montecitorio respira un'aria «tormentosa» • „*: «*».•• rifiutivi : . \ , , DALLA COSTITUENTE A TANGENTOPOLI Ivecchi romani veri lo chiamano ancora «er baraccone»: è il palazzo di Monte Citorio. Sotto papa Innocenzo X quell'edificio la cui sublime facciata si deve al Bernini, ospitò i Tribunali (Curia Innocenziana). Il governo italiano, trasferitosi a Roma nel settembre del 1870, incaricò il piemontese ingegner Paolo Comotto, «valoroso caposervizio del Genio Civile» di trasformare il cortile berniniano in una grande aula per le sedute del Parlamento nazionale. Per far presto si costruì l'aula tutta in legno di quercia sicché scricchiolava sinistramente: un baraccone, giustappunto. Solo nel 1904 l'architetto siciliano Ernesto Basile edificò l'aula com'è oggi: col fregio quasi monocromo del Sartorio e le pesanti «decorazioni scultoree» di Davide Calandra. Il palazzo di Montecitorio in relazione al suo ampliamento venne isolato e due stradine parallele al suo asse principale costituirono, a destra e a sinistra, le vie dell'Impresa (dall'impresa del giuoco del Lotto che qui aveva sede al tempo dello Stato pontificio) e della Missione. Al contrario di molti eccellenti colleghi che nel Parlamento sono cresciuti (da giovinetti ad anziani signori: tutta una vita), il sottoscritto è entrato in quel Palazzo due volte soltanto. Durante la Costituente per ascoltare un bel discorso di Ugo La Malfa; nel 1964 quand'era in ballo l'elezione di Saragat a Presidente della Repubblica. Entrambe le volte entrai da piazza del Parlamento. Questa volta vado a ritirare il passi al numero 4 di via della Missione. Là dove cadde Palmiro Togliatti sparato da Antonio Pallante, il 14 di luglio del 1948. Quel mattino ventoso la voce dell'attentato corse velocissima come il fuoco sulla cordite e fui tra i primi a giungere correndo in via della Missione. Massimo Caprera, il giovine segretario di Togliatti, era piegato in due dal dolore, si percuoteva le gambe con tremende manate: «Me l'hanno ammazzato», gemeva. Nilde lotti, lei che s'era gettata su Togliatti a fargli da scudo, alta e solenne personificazione della dea Cerere, affermava con forza: «Si salverà». Appariva incredibilmente compos sui, ma sotto le ascelle s'allargava veloce la gora del sudore: una emorragia di angoscia, di pena. d'amore. E' un ricordo confuso, il mio. Rapidi flashes che squarciano la nebbia del tempo mentre calpesco i sanpietrini di via della Missione ed entro nel Palazzo. La livrea dei commessi è come sempre impeccabile. Sono ben rasati, hanno le unghia curate, non fumano. E sono gentilissimi mentre, ai tempi della Costituente, eran piuttosto boriosi. Oltre la spessa porta di mogano s'apre la sala stampa. Irriconoscibile. Nel 1964 il suo decoro era una mistura austera ed insieme serena dell'Orient Express e della Camera dei Comuni. Adesso al posto dei calamai triongano computers, stampanti etc. nel segno della massima funzionalità ma il decoro, sia detto senza offesa, fa pensare al coffee shop degli alberghi americani sparsi nel Terzo Mondo. In aula sta parlando Occhetto ma soltanto uno sparuto drappello di colleghi se lo guarda e l'ascolta tramite un televisore a circuito chiuso. Tutti gli altri giornalisti passeggiano confabulando con questo o quell'onorevole deputato ovvero s'affollano intorno a un parlamentare socialista che li fa sganasciare dal ridere esclamando: «Se non mi mandavano l'avviso di garanzia, mi sa che segretario del partito riuscivo io». Nello svano d'un finestrone, tra luce e ombra, un uomo giovine e imponente che fu già ministro audace per fantasia e straordina¬ rio per resistenza fisica, spiega che il psi non è affatto allo sfascio. Parlando scuote la folta capigliatura, grave in volto. I giornalisti che gremivano il corridoio nel 1964 erano tutti, dico tutti, vestiti con sobria eleganza, di scuro. Adesso noto che i giovani son ben curati mentre quelli di mezza età appaiono dimessi; qualcuno ha la barba lunga o, peggio, le guance mal rasate e i pantaloni bolliti da sgradevoli pieghe all'altezza del cavallo. In quei giorni febbrili che precedettero l'elezione di Saragat, lui, il presidente che sarebbe stato chiamato «don Peppino u' telegramma» a causa del debole che aveva pei messaggi, lui incedeva solenne portando la testa come un ostensorio. Adesso c'è l'onorevole Sbardella che procede cauto come un monsignore in borghese, straordinariamente chiaro in volto, quasi l'avessero incipriato. Sorride. A tutti e a nessuno. Il principe delle veline coi suoi denti un po' in disordine, feroce nella sua intelligenza spregiudicata, tritura le informazioni che gli portano trafelati i galoppini, sceverando a mo' di trebbiatrice umana, il grano dal loglio. Il suo occhio attento, prensile si direbbe, segue curvi portaborse che parlano con le mani, a mo' di sordomuti. Silenziose «grida», le loro, alla borsa valori della subpolitica. Salgo al secondo piano per vedere dal vivo il dibattito. La tribuna stampa è pressoché deserta. C'è solo una signora con una papalina rossa in testa e una veletta viola. Rammentando il consiglio che mi diede trent'anni fa Giampaolo Pansa, ho portato con me un binocolo da teatro. Inquadro Occhetto. Sembra uscito da un libro di Courteline, così dimesso e sincero come figura. Accanto a lui siede impassibile il giovine D'Alema. Sembra la versione triste di D'Artagnan, o forse di quel paladino dell'opera dei pupi chiamato Gano. Inquadro il Presidente del Consiglio. Sembra interessato a quel che dice Occhetto, ogni tanto prende appunti ma a ben guardare ha l'aria di un uomo invero distratto. Forse pensa già alla replica. Che sarà seguita da un pubblico molto più numeroso di quello di Occhetto, e riceverà più o meno gli stessi applausi. Chissà perché, tornando nel cosiddetto Transatlantico mi vengono in mente questi versi di Saba: «Circola intorno a ogni cosa, un'aria strana, un'aria tormentosa». Quel deputato socialista che chiaramente l'avviso di garanzia non scuote affatto, continua a far ridere: «Il cinghiale è fottuto (...) Mariotto è colto. (...) Martinazzoli, da bravo avvocato, l'ha messo in quel posto a tutti». Sbardella continua a camminare. Assorto. Con una sciarpa in mano quasi portasse una stola sacerdotale. Colgo al volo questo scambio di battute fra due onorevoli: «Il fine settimana dove pensi di andare?». «E dove vuoi che vada: a San Vittore». E ridono entrambi quasi celebrassero, disperati, un esorcismo. Altro scambio di battute, fra democristiani: «Ma come può essere che Amato che stanga tutti, che spreme senza pietà la gente, come può essere che piaccia al popolo sovrano?». «Piace perché sa spiegare. E' un professore, sa spiegare le cose che fa». «Hai detto gnente». Anche nel 1964, a pensarci bene, nel corridoio dei passi perduti si facevano, come ora, pettegolezzi ma l'aria che circolava non era inquinata se non dal fumo delle sigarette. Adesso le sigarette sono sparite, ma compare la Guardia di Finanza. In Parlamento. Nessuno vuol far capire d'aver compreso che giorno dopo giorno, a Montecitorio e fuori, stiamo preparandoci al funerale della prima Repubblica. Agonizza, poverina, colpita da un male senza misericordia chiamato vergogna. Fuori del «baraccone» che scricchiola non è che si stia meglio. Sotto il sole ustorio di Roma capitale, due tassinari si insultano ferocemente, urlando. Diciannove giapponesi malvestiti li fotografano beati. Igor Man In trent'anni tutto è cambiato Restano uguali battute e pettegolezzi In trent'anni utto è cambiato Restano uguali battute e pettegolezzi si Perduti» e, sotto, Togliatti I «Passi Perduti» e, sotto, Togliatti

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