Intervista con il grande medievista francese che ha rivoluzionato il modo di narrare il nostro passato

Intervista con il grande medievista francese che ha rivoluzionato il modo di narrare il nostro passato Intervista con il grande medievista francese che ha rivoluzionato il modo di narrare il nostro passato CPARIGI EORGES Duby, il grande medievista che ha riformato la storiografia fa—Icendo di una disciplina accademica un grande successo editoriale, è preoccupato: «Penso all'avvenire del mestiere che amo, all'avvenire dei giovani che lavorano con me. Provo una certa angoscia quando mi interrogo su ciò che il nostro mestiere può diventare. Non sono ottimista riguardo all'ambiente che conosco meglio, quello degli storici francesi. Ho l'impressione di una caduta, e non credo di cedere alla tendenza dell'uomo anziano portato a credere che quanto accadeva quando era giovane era meglio». Lei ha vissuto la grande epoca della storiografìa francese: che cosa è cambiato da allora? «Questo mestiere era magnifico, specialmente per storici del periodo che io ho studiato o del XVI secolo, perché era su questo che i grandi maestri avevano lavorato: Marc Bloch, Lucien Febvre, Braudel. Avevamo il senso di un totale rinnovamento della storia. Eravamo so-' stenuti da un'ondata di entusiasmo, un entusiasmo aggressivo, conquistatore. Le guerre per la storia, diceva Lucien Febvre, erano cominciate, e combattere dalla parte giusta era un continuo incitamento a fare meglio. «Non è stato facile superare le resistenze, convincere che era essenziale fare la storia delle mentalità, che gli antropologi potevano insegnare molto agli storici, e poi che non bisognava ripudiare il pensiero marxiano, ma cercare di portarlo avanti. Eravamo continuamente stimolati dalle sfide che arrivavano dal marxismo, dallo strutturalismo e dalle scienze vicine. Dovevamo rimettere tutto in discussione, ridistribuire le carte e riprendere il gioco. «Poi, poco a poco, l'ardore combattivo si è attenuato, e per buone ragioni: tutto quello per cui Febvre, Bloch, Braudel avevano lottato era ormai riconosciuto da tutti, persino dai più reazionari dei nostri avversari. La cittadella avversaria si era arresa senza condizioni. Padroni del campo, ci siamo pian piano seduti sugli allori. Le sfide che, dall'esterno, ci avevano stimolato, ora le attendiamo invano. Non ci sono più avversari e, nel crollo delle ideologie, come si dice, non ci sono più serie messe in discussione». E' stata una vittoria scientifica e anche una vittoria del pubblico. La storia «colta» è stata largamente diffusa dall'editoria. «Anche questo, forse, ha pesato come un fattore di intorpidimento. Noi non abbiamo rincorso il successo editoriale. Quando gli editori si sono resi conto che la storia che facevamo noi si vendeva meglio di quella fatta nel vecchio modo, abbiamo ricevuto alcune offerte. Perché rifiutare? Il nostro mestiere esige che si faccia co noscere al maggior numero possibile di persone ciò che noi crediamo di sapere. Io ho accet tato con piacere di scrivere per il grande pubblico. Ho accettato di lavorare per la televisione. E non era senza pericoli. «Non parlo della tentazione di prendersi per una star, ma prima di tutto del tempo perso. I nostri libri diventavano oggetto di commercio e noi eravamo sollecitati a cooperare al marketing. Grande spreco di tempo. Altro tempo impiegato per la ricerca, per la necessità di aggiustare il nostro modo di scrivere, per essere più comprensibili, più "attraenti". Ma non bisogna essere troppo negativi. Anche la richiesta degli editori fu molto stimolante. Ci obbligò a esplorare terreni nuovi. Tutti i libri che ho scritto, salvo due, mi sono stati ordinati. Non avrei mai pensato, solo per fare un esempio, a dirigere una Storia delle donne». Nei suoi intendimenti questo successo deve anche attirare i giovani, suscitare «vocazioni» tra gli studenti? «Sì, forse. Ma ciò che mj sembra in grado di rianimare la ricerca nel campo storico è altrove. Prima di tutto nei nuovi contrasti fra la nostra civiltà, la nostra cultura, questa civiltà di cui facciamo la storia, e le altre che impariamo a conoscere meglio e che ci pongono dei problemi. E' da lì che possono arrivare nuovi stimoli. Per esempio il fatto che esistono, di fronte a noi europei, società in cui la religione è intimamente mescolata al profano e organizza tutti i rapporti dovrebbe portare lo storico a interrogarsi diversamente su ciò che noi chiamiamo religione e isoliamo dal resto in modo del tutto arbitrario, dal momento che essa, fino a un'epoca recente, si trovava al centro di tutti i processi evolutivi delle società europee. «Così le resistenze che più o meno apertamente si oppongono, al di fuori della civiltà occidentale, all'adozione del nostro modello di diritti dell'uomo, potrebbero spingerci a esaminare più da vicino come, in quelle condizioni, questo modello si è costruito. In breve, in un mondo che, lungi dal vedere l'avvicinarsi di quella "fine della storia" ingenuamente promessa da alcuni utopisti non molto tempo fa, scopre con stupore che la storia rischia di diventare sempre più chiassosa e furiosa, quel che mi sembra poter provocare un nuovo slancio per il nostro mestiere è il problema del potere, del suo esercizio, della sua ripartizione tra le classi e i sessi, dei suoi sostegni ideologici, della sua espressione attraverso il vocabolario». Ma il malessere di cui lei parla non viene anche da una crisi di statuto professionale degli storici, da una crisi nella trasmissione del sapere? «E' soprattutto questo che mi preoccupa. La nostra società, quella verso la quale andiamo, avrà lo stesso interesse per il passato? Quale posto accetterà di accordare alla ricerca storica, all'insegnamento della storia? Me lo chiedo ansiosamente, notando quanto, nel giro di pochi anni, il nostro mestiere si sia degradato. E giudico questa situazione piena di pericolo per la società. Una civiltà che lascia andare a rotoli le sue istituzioni educative è gravemente malata». Pensa che gli storici abbiano un ruolo come educatori della società? «Certamente. La storia è una memoria e la memoria è utile per comportarsi bene. Tuttavia lo storico ha abbandonato da molto tempo la pretesa di dettare regole di condotta, e molti storici hanno cessato di credere che la storia abbia un senso. Ciò detto, è chiaro che studiare l'evoluzione di una formazione sociale e culturale permette di interpretare meglio ciò che accade oggi nel crepitio della cronaca. E' la mia esperienza di storico che mi autorizza a lanciare questo grido d'allarme a proposito dello stato del nostro sistema educativo». Ritiene che si stia perdendo la memoria? «Non c'è perdita di memoria, al contrario. La nostra società vive rivolta al passato, è per questo che i libri di storia vendono bene. Ma non credo che questo gusto del passato sia un segno di buona salute. Riflette un'inquietudine: la nostra società ha preso coscienza della sua fragilità. Cerca le sue radici. Moltiplicando le commemorazioni cerca di persuadersi che è ancora vigorosa». Ma non è paradossale che più la storia si è affermata come scienza, più ha avuto successo come letteratura? «Direi innanzitutto che la storia non si afferma più come una scienza. Aderisco a ciò che diceva Lévi-Strauss a proposito delle scienze umane: non sono scienze. Un secolo fa la storia credeva di essere una scienza umana. Poco a poco gli storici hanno riconosciuto che è vano sperare di raggiungere l'oggettività. Della realtà cogliamo soltanto delle tracce. Cancellate, discontinue, insufficienti. Il nostro dovere è di sfruttarle a fondo, senza manipolarle. Ma bisogna colmare scrupolosamente i vuoti e, per ricostruire un puzzle di cui manca la maggior parte dei pezzi, usare l'immaginazione. «Che cos'è il discorso storico, se non l'espressione di una reazione personale dello storico di fronte alle rovine sparpagliate della sua emozione, direi del suo sogno? Perché, senza dubbio, deve sognare. Seriamente, ma deve sognare. Ora, non può far condividere un suo sogno ai lettori preparando solo inventari, statistiche, parabole. Bisogna aggiungere qualcosa come la poesia, gli artifici del verbo. E' così che la storia, quella fatta bene, torna a essere (coscientemente, scrupolosamente, per meglio far conoscere la parte di verità che riesce a catturare) come era nel XIX secolo, ai tempi di Michelet: un genere letterario». Lei è uno storico che si è impegnato anche nel campo della comunicazione. «Ho concepito il mio mestiere come fatto essenzialmente di comunicazione. Al Collège de France tutte le porte sono aperte. Non è un caso che io lavori anche per la televisione. Ho voluto utilizzare questo mezzo d'espressione per estendere ancora di più il mio uditorio. Allora ho lavorato per tradurre in immagini il libro che avevo scritto. Poi ho assunto delle responsabilità in un progetto di televisione culturale. Con entusiasmo, perché ritengo indispensabile che la Francia si doti di un canale culturale». Lei parla spesso di crisi della trasmissione del sapere. Pensa che la televisione possa essere uno dei rimedi possibili a questa crisi? «Evidentemente la televisione è uno strumento, uno strumento meraviglioso. Bisogna utilizzarla bene. Oggi serve essenzialmente a lanciare messaggi politici o pubblicitari e a divertire: soprattutto molti intellettuali, che rientrando dal lavoro, si tuffano in un bagno di futilità. Molto efficace. La televisione lava il cervello. Contrariamente a quanto alcuni affermano, non è un fattore di coesione sociale. Alcuni gruppi si incontrano davanti allo schermo, ma accalcati come insetti di notte intorno a una luce, inermi, senza vera comunicazione tra loro. «Così come viene usata oggi, la televisione può essere nociva perché impedisce di pensare, di giudicare: mistifica. Contro una tale utilizzazione bisogna reagire, per inserire la tv in qualche modo nel sistema educativo e della diffusione culturale. A scuola bisognerebbe insegnare a servirsi di un apparecchio ricevente o di un "magnetoscopio" come di un libro, che si va a cercare sullo scaffale quando se ne ha bisogno». Pierre Lepape Copyright «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa»

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