la rivincita di Pappagone

Una grande rivalutazione del comico napoletano, a tredici anni dalla morte Una grande rivalutazione del comico napoletano, a tredici anni dalla morte la rivincita di PER l'attore comico l'unica salvezza è morire». Diceva così Peppino De Filippo quando credeva di combattere contro le ombre maligne dei critici, colpevoli di non apprezzare abbastanza il suo teatro, di preferire alle sue farse fragorose il messaggio ideologico. «Invece mio padre era come Plauto, era un Molière napoletano», dice oggi il figlio Luigi. Sarà una coincidenza, ma quella lontana amarezza doveva dimostrarsi profetica. Peppino morì tredici anni fa, il 26 gennaio 1980, però mai come ora la sua comicità e la sua opera sembrano destinate a una nuova e non casuale circolazione. Oltre ai film (una cinquantina) che ogni rete tv trasmette a ondate caotiche, ci sono i libri e il recupero delle commedie. Dopo avere pubblicato il «Peppino De Filippo» di Enrico Giacovelli e Enrico Lancia, l'editore Gremese ha da poco mandato in libreria il «Tutto Peppino» dovuto alla cura di Rodolfo Di Giammarco: una raccolta inaspettatamente ricca di sketch, poesie, favole, racconti, canzoni e pagine inedite di teatro. Aldo Giuffrè è in tournée con la commedia «Ma c'è papà», che Peppino scrìsse a quattro mani con Titina De Filippo. Il 9 marzo, al Teatro delle Arti di Roma, la Compagnia dell'Atto rappresenterà, col titolo «Staserà si recita Peppino», quattro atti unici: «Miseria bella», «Spacca il centesimo», «Il grande attore», «Don Rafele 'o trumbone». Quest'ultimo titolo sarà ripreso in aprile da Gigi Proietti in uno spettacolo interpretato da Nino Frassica. Sembrerebbe la rivincita di Peppino, il trionfo dell'istrione che faceva il cinema per pagarsi il teatro, il guizzo vendicativo del fratello flemmatico di Eduardo che, con la sua faccia impassibile, con quelle sue smorfie tra l'impaurito e il carognesco, faceva il controcanto alla recitazione lenta e friabile dell'antagonista. Peppino aveva una forza dirompente. Chi l'ha visto nelle «Metamorfosi di un suonatore ambulante» ricorda le risate più pure e disinteressate provocate da quell'attore che si trasformava persino in neonato mostruoso, con baffi e cuffletta; chi se l'è goduto in «Don Felice affamato tra un invito a pranzo, un amico scultore e due poveri in campagna» non può cancellare le immagini di una comicità arcaica, che pare scaturire direttamente dalla fame, la gran de fame plebea che riusciva a trasformarsi in furfanteria buffonesca: Peppino che ruba una manata di spaghetti fumanti e la nasconde nel cappello, e poi coi fili della pastasciutta che gli pendono lungo le guance sta ad ascoltare contrito le minacce dell'oste. Le atellane di una volta non dovevano essere molto diverse. Certo, il teatro di Peppino non è quello di Eduardo. Ma qualche commedia significativa, molto al di sopra del puro livello artigianale, l'ha scritta. Basti ricordare «Non è vero ma ci credo», «Quelle giornate», «Quaranta ma non li dimostra», «Don Rafele 'o trumbone». Peppino le scriveva sulla propria misura istrionica; ci metteva dentro quei suoi tipi un po' loschi, i grandi scrocconi, i cinici un po' paurosi. Non era un candido. La sua ingenuità si fermava ai lazzi e alle gag, dopo di che c'era la zona dei personaggi indispettiti, frustrati, divorati dai tic. Non a caso Fellini lo scelse per il primo episodio di «Boccaccio 70» e lo trasformò in un professore tartufesco; non a caso l'«Avaro» di Molière, così denso di malignità, fu uno dei suoi capolavori interpretativi. Anche nel cinema, non solo nelle grandi prove accanto a Totò, ma anche nei film tirati via, Peppino metteva il proprio segno, il guizzo spiritato degli occhi. Anche in tv lasciò la traccia del pro- prio talento fragoroso. Chi non ricorda la maschera di Pappagone, proposta nel '66 a «Scala reale»? Chi non ricorda quel personaggio col ciuffetto di capelli che s'impennava sul parrucchino color carota e parlava con deformazioni irresistibili? Tutta Italia fu contagiata da «ecque qua», «aglio e travaglio fattura ca nun quaglia», «esaudimento nervoso». «Mio padre è stato un grandissimo artista - dice Luigi De Filippo, che cominciò a recitare proprio con lui, nel '51 -. Non è stato grande per il cinema o per la tv, che considerava marginali. E' stato eccezionale in palcoscenico, sia nelle proprie commedie, sia interpretando Molière, Machiavelli, Pirandello. Era più bravo di Eduardo, più versatile». Luigi sostiene con vigore anche le qualità drammaturgiche di Peppino: «Nel genere comico le sue opere erano quasi perfette. Con "Le metamorfosi di un suonatore ambulante" partecipò nel '61 a Parigi al premio Sarah Bernhardt e lo vinse». Da qui il grande rammarico: «Soffriva per la scarsa considerazione della critica. Diceva: sono sicuro che tra dieci anni troveranno l'interprete giusto». E il suo orgoglio? «Il suo orgoglio ero io, perché in me vedeva la tradizione che continua. Lui amava il teatro onesto, dotato di forza comica, capace di coinvolgere il pubblico». Le confidava mai i suoi dispiaceri? «Quando vedeva che fare teatro per lui era difficile, si sfogava. Non riusciva a mandar giù che gli negassero i grandi teatri a favore di Eduardo. Ma, dopo le grandi tournée in Europa, le porte gli si riaprirono. Ancora una volta, la consacrazione veniva da fuori». Com'era Peppino capocomico? Tirannico come Eduardo? «Era abbastanza cordiale, ma non per¬ deva tempo a insegnare ai giovani. Chi capiva capiva». E a lei che cosa ha insegnato? «Il rispetto per il lavoro e per il pubblico. Mi raccomandava di non annoiare. Diceva: se il pubblico non partecipa il teatro finisce. Oggi, col nostro teatro così sovvenzionato e così inutile, soffrirebbe molto». L'istrione furbastro e tiraschiaffi era molto sensibile. Ma sapeva reagire al malumore col paradosso. Disse una volta: «Se potessimo nascere vecchi e morire giovani... moriremmo tutti felicemente perché, mano mano che ringiovaniamo, dimenticheremmo rimorsi e pentimenti, dimenticheremmo tutto e moriremmo senza neanche avvedercene nella più perfetta incoscienza, lieti e felici senza paura di perdere l'anima». Sognava così il diavolo della risata. Osvaldo Guerrieri Ricorda il figlio «Era un Molière napoletano» m ^^^^^^^^^^^^^^^^ 1 Peppino De Filippo, qui sopra il figlio Luigi, nella foto piccola Tieri

Luoghi citati: Europa, Italia, Parigi, Roma