«Palermo ha inghiottito mio figlio» di Francesco La Licata

«Cercava di entrare nei buchi neri di questa città maledetta, una giungla che uccide in tanti modi» «Cercava di entrare nei buchi neri di questa città maledetta, una giungla che uccide in tanti modi» «Palermo ha inghiottito mio figlio» Pària il padre dello 007scomparso 2 anni fa VITTIMA LPALERMO A guardo con occhi diversi, adesso, questa città. Ora che vivo nella certezza che si è ingoiata mio Figlio. Povero Emanuele, lo rivedo pieno di vita e di entusiasmo e non posso fare a meno di pensare: in quale voragine lo hanno seppellito? Era grande e grosso Emanuele, eppure incapace di fare del male ad una mosca. Voleva combattere la mafia, contrastava l'ingiustizia. La sua ambizione? Un desiderio, se volete, infatile: entrare nel servizio segreto. C'è riuscito, alla fine, dopo mesi, anni, di tentativi, di dimostrazioni di coraggio, di successi ascritti ad altri. Il suo sogno si avverava e il cuore mi si stringeva. Temevo che si sarebbe cacciato in qualcosa di molto più grande delle sue possibilità. Per lui avevo ipotizzato una vita diversa: i libri, l'attività forense, qualcosa, insomma, di più consono alla tradizione della nostra famiglia. E invece lui correva, correva sempre. Su quella sua maledetta moto. Cercava di entrare nei buchi più neri di questa città maledetta, dove non sai mai chi ti trovi davanti. Collaborava con carabinieri e poliziotti, mentre, per mestiere, stringeva forse le mani più luride di quartieri malfamati come lo Zen. E poi, quando un giorno non l'ho più visto, ho scoperto che Emanuele era solo. Hanno persino negato che lavorasse per loro, per lo Stato italiano. Non avevo neppure un cadavere da reclamare, non una tomba su cui piangere. Potevo lasciare che le cose andassero così? Potevo permettere che di mio figlio si perdesse anche la memo ria? Ho taciuto, prima. Ho avuto rispetto per la magistratura. Ho persino creduto nella buonafede della segretezza che avvolgeva la storia e la fine di Emanuele. Ho capito, poi, che quell'aria di mistero era solo l'alibi per tenere segreta una vicenda scomoda. La storia di un ragazzo morto per amore di giustizia, mandato allo sbaraglio e poi persino rinnegato. Per questo io, Giustino Piazza, palermitano antico, avvocato civilista, figlio di magistrato, mi sono trasformato: da tranquillo borghese con la passione per la politica, sono diventato uno che chiede giustizia. Forse un rompi balle. Ma non mi pento. Chiederò giustizia sempre, finché ne avrò la forza. Voglio sapere perché è morto mio figlio, chi lo ha ucciso Anche se l'inchiesta è ufficialmente archiviata per decorrenza dei termini. Non voglio che il mio Emanuele sia dimenticato, com'è avvenuto per il giornalista Mau ro De Mauro. No, deve essere chiaro che il mio ragazzo è stato eliminato perché testimone o protagonista di uno dei tanti misteri di Palermo. Adesso, dopo gli scandali legati al Sisde, dopo l'arresto di Bruno Contrada, dicono che ci potrebbe essere un collegamento tra la morte di Emanuele e l'attentato alla villa dell'Addaura di Giovanni Falcone. Qualcuno sta tentando di ucciderlo una seconda volta, avallando l'ipotesi di un suo coinvolgimento nell'attentato fallito del giugno di quattro anni fa. Ma anche questo ho imparato. Questa è una città che uccide in tanti modi e tante volte. Non riconosco più l'antica nobiltà di Palermo felicissima. Questa è una giungla, una palude sterminata. Motivo in più per reclamare giustizia. E così eccomi, padre addolorato, uguale a tanti altri padri che a Palermo hanno perso tutto. Marito che deve anche mostrarsi forte e lenire il dolore di una madre ossessionata da una domanda: si saprà mai la verità su nostro figlio? Certo che ve la racconto la storia di Emanuele. No, non riapro la ferita, dal momento che non si è mai rimarginata. Era il 15 marzo del 1990, quando l'ho visto per l'ultima volta. Festeggiavamo il mio cinquantottesimo compleanno. L'ho visto salire sulla moto, quell'immagine non mi ha più lasciato. Sono passate 48 ore senza avere sue notizie. Nella villa di Sferracavallo, dove Emanuele viveva, era rimasto il pranzo del cane - mio figlio era pazzo per gli animali - e, vicino al letto, un elenco di latitanti della mafia Una lista di 136 ricercati, in ordì ne alfabetico: da Adelfio Giovan ni a Zodiaco Rosario, passando per gente della fama di Giuseppe Lucchese, il superkiller della mafia. Così mi tornò in mente Emanuele che mi parlava del Sisde. Lavoro per loro, diceva sempre. Non mi era sembrata una cosa seria. Credevo fosse spacconeria di giovane. Quando sparì nel nulla, quei pensieri cominciarono ad affollare la mia mente. E mi sono messo alla ricerca di tutti i suoi amici, poliziotti e carabinieri. Sapevo che aveva collaborato col commissario D'Aleo, col vicequestore Saverio Montalbano. Ricordai il nome del capitano Grigliarli, del Sisde, di cui Emanuele mi parlava come suo tramite col servizio segreto. Incredibile: nessuno lo conosceva, tranne D'Aleo. Lui sì che lo conosceva, non poteva negare che era stato anche a casa mia. Ma sulla fine di Emanuele si espresse come il più classico dei depistatoli: mi disse che mio figlio probabilmente se n'era andato con qualche donna. Parlai addirittura col suocero del fratello di Grignani, uno del ministero dell'Interno, che mi fece la se guente obiezione: cosa c'entrano i carabinieri con la poli zi a? Quindi mi ha fatto intendere di non insistere troppo in direzione dei servizi segreti. Solo l'intervento dei giudici Giovanni Falcone e Alfredo Morvillo, cui mi rivolsi con una memoria scritta, costrinse il Sisde, per mano del prefetto Malpica, ad ammettere che Emanuele era agente in prova. Erano passati otto mesi dalla scomparsa. E le indagini? Ricordo la risposta sconsolata di Giovanni Falcone «Aspettiamo un pentito...». Il tempo è trascorso ed ha cancella to ogni speranza. Ora, da qualche settimana, si riparla dell'attentato all'Addaura. Hanno riportato alla luce la morte dell'agente Agostino, trucidato con la moglie ancora prima che sparisse Emanuele. Hanno insinuato che entrambi fossero invischiati nell'attentato. Io mi chiedo: non è possibile, invece, che avessero scoperto qualcosa? Comunque stiano le cose, non ho paura. Voglio sapere lo stesso la verità, anche se dovessi scoprire cose spiacevoli. Leggo i giornali e ricordo. Penso a quando la squadra mobile sequestrò l'attrezzatura subacquea di mio figlio. Sul momento non capii. Ne parlai con Falcone, lui mi disse: «Hanno le loro ragioni». Solo dopo collegai tutto con quella borsa piena di tritolo che, secondo la polizia, killer venuti dal mare avevano lasciato davanti alla villa di Giovanni Falcone. Me lo dicano, però, se i loro sospetti hanno trovato consistenza. E invece niente. Non so nulla. Non posso neppure consultare le carte del processo, perché - sebbene archiviato - risulta ancora coperto dal segreto. Così continuo a vivere in questa città che trovo sempre più ostile, sognando di tanto in tanto di veder sbucare Emanuele da un angolo buio. E' stata l'ultima botta, la fine di mio figlio. Quella che, tuttavia, mi ha aperto definitivamente gli occhi. Ora guardo tutto con molto scetticismo, anche le vicende che sembrano limpide. Dei morti eroici, tranne quelli recentissimi, salvo solo Petrosino e il giudice Costa. Nutro dei dubbi su tutti. Mi hanno tolto pure la politica. Abbandonai il psi quando mi consigliarono, nella campagna elettorale del 1980, di fare un giro dei quartieri per chiedere voti ai capimafìa. Successivamente mi negarono, senza una motiva¬ zione convincente, la presidenza di un ente. In privato, due eminenti funzionari del partito - i nomi non servono - mi dissero chiaramente: «Tu non sei operativo». E mi spiegarono pure cosa doveva intendersi per operativo. Ho cercato di riavvicinarmi alla politica. Per questo ho scritto al mio amico Aldo Aniasi, che per un certo periodo ho creduto promotore di una specie di rifondazione morale. Gli ho parlato della mia tragedia personale, gli ho descritto Palermo. Ho aggiunto che qui il partito è più simile ad una setta segreta che ad una organizzazione politica. Non mi ha risposto, pazienza. Se mi sono rivolto alla mafia per avere notizie di Emanuele? Me lo consigliarono, alla squadra mobile. Così vanno le cose a Palermo. Mi fecero i nomi di due colleghi avvocati ai quali potevo eventualmente chiedere di interessarsi. Non l'ho fatto. Anzi, uno era quasi amico mio. Adesso lo saluto appena. E mi rifugio sempre più dentro casa mia. Francesco La Licata «Voleva combattere i boss ma al Sisde hanno negato che lavorasse per loro Adesso pretendo la verità» Di Emanuele Piazza non si hanno più notizie dal giugno del 90

Luoghi citati: Falcone, Palermo, Zodiaco Rosario