La memoria

La memoria La memoria «Andare a casa, era runico pensiero in quel terrìbile inverno di guerra» r~pilERGENTMAGIU', ghe riLi varem a baita?», mi chiem deva Giuanin, un alpino Il del mio plotone, ogni volta I h^Li che lo incontravo tra le trincee del Don. Giuanin non è più tornato a casa, ma tutti noi in quel terribile inverno del 1942-43 avevamo quell'unico pensiero: tornare a casa. In tanti, sulla cinghietta che contornava il cappello o sulla gavetta, scrivevamo o incidevamo «Mamma, ritornerò» o «Maria aspettami» o «Parto ma ritorno». A certi ufficiali queste scritte non j facevano buòna • impressione perché, dicevano, «portano male, sono di malaugurio». Ricordo un comandante di compagnia che si arrabbiava forte con gli alpini quando leggeva qualcosa che richiamava la mamma o la morosa o la casa. Ma loro, gli alpini, e specialmente quelli addetti alle salmerie, non davano peso alle parole di questo comandante. Che non ritornò. Per quanto mi riguarda, in Albania sul coperchio della gavetta mi ero fatto incidere un paesaggio alpino con animali selvatici: era venuto bellissimo perché a crearlo era uno della Val Trompia che da civile faceva l'incisore in fino sulle cartelle dei fucili da caccia. La mia gavetta è rimasta sui monti dell'Albania e forse il bel paesaggio è in qualche casupola di musulmani. Prima di partire per la Russia avevo lasciato una fotografia a mia madre e una alla ragazza con scritto sotto Ritornerò! e in certi momenti quel Ritornerò! con il punto esclamativo diventava per me un imperativo da onorare. Ma come ben ricordo quando dentro i ricoveri con la punta del coltello o con quella di un chiodo tanti di noi incidevano o scrivevano sulla gavetta di alluminio (...). Ora l'inviato di Airone, Daniele Pellegrini, è andato sul Don a fotografare quell'ambiente dove eravamo 50 anni fa, e ha trovato un coperchiò di gavetta inciso. A mostrarglielo è stato Alim Morosov, professore di storia che da ragazzo a Rossos aveva conosciu¬ to e vissuto con gli alpini. Da questa lontana esperienza gli era venuta la passione di raccogliere oggetti (la storia nelle cose!) e quant'altro abbandonato da noi durante le battaglie e ordinare questo materiale in un piccolo museo (...). L'inviato di Airone rimase colpito dalle parole: Giuseppina tornerò, incorniciate «da una bella decorazione floreale» e, sotto, il nome: Stolto Ruggero. «La scritta mi era sembrata così romantica da meritare una ricerca sul suo autore per sapere se aveva o no riabbracciato la sua Giuseppina». Tornato in Italia, Pellegrini cominciò a cercare. Prese contatto con il ministero della Difesa, dove dall'ufficio Onor caduti gli assicu¬ rarono che quel nome non risultava tra i caduti, né tra i dispersi. Sulla traccia indicata dal direttore di Airone («Stolfo in origine sarà stato Astolfo, re dei Longobardi, prova a cercarlo nel FriuliVenezia Giulia», telefonò a tutti gli Stolfo di quell'area. Niente. Passò al Veneto: Belluno, Venezia, Treviso... A Ponzano Veneto trova Stolfo Ruggero, via Pola 4. «Signor Stolfo, lei ha fatto la campagna di Russia?». «Sì». «Lei aveva una gavetta su cui aveva scritto Giuseppina tornerò?». «Ho fatto 27 mesi in Albania e in Grecia senza mai tornare a casa e 10 mesi in Russia con la Julia, cosa vuole che mi ricordi di una gavetta dopo 50 anni! Cosa vuole da me?». «Ma in quel tempo aveva una fidanzata che si chiamava Giuseppina?». «Adesso è mia moglie e mi ha dato tre fighi». All'entusiasmo del fotografo, Stolfo Ruggero, ex artigliere alpino della XV batteria del gruppo Conegliano della Julia, portaferiti, dimostra reticenza e pudore. Lui vorrebbe dimenticare tutti quegli anni e la guerra, ora invece si ritrova davanti a tutte quelle sofferenze, di amici che non sono più tornati, e ricorda il suo ritorno al paese e il pellegrinaggio al santo di Padova con tutta la famiglia come aveva promesso in quei maledetti e drammatici giorni dell'inverno 1942-43. Ma ricorda anche Giuseppina, la figlia del calzolaio di cui si era segretamente innamorato. Erano ancora bambini, alle elementari, e lui in IV dovette smettere la scuola per aiutare in casa dopo la morte del padre. Giuseppina era la sua più cara amica e con lei sognava e si confidava. Fu solo dopo la campagna d'Albania, quando venne in licenza per un mese, che ebbe il coraggio di chiedere la mano in casa di lei. C'era un altro compaesano che gironzolava intorno alla ragazza ma «si fece subito in disparte». Dalla Russia le scriveva ogni giorno che poteva. Da gennaio a marzo vi fu silenzio. Ma c'erano sempre il sogno e la speranza del ritorno. Sul coperchio aveva scritto Giuseppina tornerò; ma la sua gavetta, come quella di moltissimi altri, era rimasta là sul Don; vuota, nella neve. Era rimasta la gavetta ma non la fede che il vento della tormenta non riusciva a spegnere... Ritornò dalla Russia nella primavera del '43. Si sposarono nel '46. Lavorava da muratore, ma per poter costruire la casa è emigrato per cinque anni in Venezuela. Hanno tre figli, quattro nipoti. Ora, dopo 50 anni, Airone è andato a Ponzano Veneto per riportare a Giuseppina e a Ruggero questa umile testimonianza di tanto amore. L'amore di un alpino che è riuscito a tornare «a baita». Mario Rigoni Stem 27 mesi in Albania e 10 in Russia ma il soldato della Julia mantenne il giuramento all'amata Giuseppina «Hip iPllllL A fianco, Mario Rigoni Stem: «La mia gavetta è rimasta sui monti dell'Albania» A destra, Ruggero Stotfo con la moglie Giuseppina, i figli e i nipoti. Sopra, la coppia nel dopoguerra. Nella foto grande, la gavetta ritrovata