io primo lottizzato Rai

«Vogliono cambiare i direttori? Non si riacquista così la libertà» Mentre esplode la guerra dei tg, Piccone Stella, pioniere del giornale radio, rompe trent'anni di silenzio 1ROMA L primo lottizzato? sono stato io». Il personaggio che ci parla è Antonio Piccone Stella, l'Albertini del giornalismo radiofonico, creatore nel dopoguerra del più potente giornale radio, iniziatore del primo telegiornale in Italia. Quando c'era lui, in Rai, presidenti e direttori generali dovevano cedere il passo. Bernabei, per piegarlo, fece scendere in campo Fanfara. Piccone Stella anziché piegarsi, preferì andarsene. Si chiuse fra i suoi libri, nella casa biblioteca dove lo abbiamo ritrovato. Protagonista per trent'anni, silenzioso per gli altri trenta, oggi esce dal riserbo per la prima volta, a 87 anni, mentre il giornalismo della Rai è nella tempesta e i redattori chiedono nelle assemblee l'allontanamento dei direttori. E' una storia che lui conosce bene, anche se da un po' di tempo la guarda di lontano. E conosceva bene la parola lottizzazione, ancora prima che Alberto Ronchey la inventasse. Lui ha attraversato tutte le stagioni del nostro ente pubblico, dove era entrato nel 1932; ha conosciuto tutti, è venuto a patti con molti, si è scontrato con qualcuno, se ne è andato solo. Abruzzese, quasi compaesano di Benedetto Croce, del quale si sente con fierezza allievo, Piccone Stella era un uomo di studi, amante dei classici, come testimoniano i libri che si accumulano sul suo tavolo; e ha lavorato tutta la vita al servizio della parola più labile, affidata all'etere, sottoposta al gioco dei politici. Perché, proprio lui, ha scelto questa strada? «Perché dovevo sposarmi e non potevo vivere scrivendo articoli letterari, come avevo fatto fino ad allora. L'Eiar nel 1932 aveva già le orchestre sinfoniche, le compagnie di prosa, ma giornalisti non ne aveva. A Roma cercavano un redattore, mi offrirono quel posto. E lo presi». «Un» redattore, perché non ce n'erano altri. Per tre anni, Piccone Stella fece da solo il giornale radio delle 13, delle 14, delle 17, delle 20, «tutti i giorni, comprese le domeniche». Fra i decreti che regolavano il servizio radiofonico, uno impegnava l'Eiar a trasmettere le notizie dell'agenzia ufficiale, la Stefani. «Io l'ho letto solo tanti anni dopo, quando sono andato in pensione. Oggi farebbe comodo dure che ho trasgredito per spirito di indipendenza, ma non sarebbe vero. Poiché ignoravo il decreto, e avevo una certa pratica di mestiere, cominciai a utilizzare anche le agenzie estere. Nessuno mi fece osservazione». In realtà, avverte Piccone Stella, Mussolini scoprì l'importanza del giornale radio solo con la guerra d'Etiopia. E nacquero le radiocronache che molti di noi ricordano, con le «adunate oceaniche» narrate da Fulvio Palmieri, il precettore di Vittorio Mussolini. Su quella radio l'8 settem- bre calò come una lama. Molti rimasero a Roma, Piccone Stella attraversò le linee, scese a Bari, per presentarsi al comando alleato. «Convinsi gli inglesi a fare una trasmissione intitolata "L'Italia combatte", dalla loro parte». Ricordando l'antica fede liberale, l'ex redattore unico del giornale radio fu, da quei microfoni, il cronista della guerra partigiana. «Facevo, ogni giorno, il bollettino della Resistenza, firmato Francalancia. Ricevevo le notizie dal quartier generale di Alexander, le integravo con quelle che trovavo io, m base alle voci che arrivavano dai partigiani». Quelle trasmissioni da Bari gli valsero la chiamata a Roma, dopo la Liberazione. Per qualche tempo al vertice del nuovo giornale radio c'erano stati Corrado Alvaro e Piero Treves. «Ma non andavano d'accordo, si dimisero tutti e due. E i sei partiti del Gin dovevano decidere chi mettere al loro posto. Non c'era un Parlamento. Io non avevo tessere, anche se simpatizzavo per il partito d'Azione. Per questo nominarono me. Sono stato lottizzato ante litteram perché ero l'unico che avesse lasciato l'Eiar dopo l'8 settembre». Cominciò il suo ciclo. Chi ricorda quegli anni sa come è stato determinante, in Italia, il ruolo del giornale radio. E il giornale radio era lui. Una fonte di informazioni unica, in un Paese che era appena uscito dalle lacerazioni della guerra. Come sentiva, il lettore di Benedetto Croce, quel suo ruolo? «Ho fatto l'esperienza di come fosse difficile, quasi impossibile, far passare le voci di una democrazia pluralistica attraverso un ente unico. Essendo di formazione liberale mi ero imbarcato in una serie di contraddizioni. Ma credevo che ci fosse la possibilità di essere obiettivi e imparziali. Scrissi un libretto, nel 1946, per insegnare a raggiungere il massimo di obiettività». Aveva anche altri problemi, il direttore del giornale radio, nel 1946. Le redazioni delle varie se- di si erano formate man mano che il Paese si andava liberando e, specie al Nord, erano tutte di sinistra. «A Milano c'erano tre redattori capo comunisti, guidati da Raffaele De Grada. Un giorno mi fecero leggere un resoconto dalla Jugoslavia che era pura propaganda per Tito. E io non lo potevo tollerare, nemmeno da un uomo di cultura come De Grada. Cercai di riequilibrare la situazione, senza licenziare nessuno. A Milano per esempio mandai Aldo Salvo, che era un ex paracadutista della Folgore. Lo accettarono». Riequilibrò molto, Piccone Stella, in pochi anni, mentre l'Italia virava rapidamente dal Cln al Patto Atlantico. Il suo grande momento fu il 18 aprile 1948: quando il giornale radio, forzando i dati, mandò milioni di italiani a votare. E oggi, finalmente, lui confessa. «E' stata la giornata più importante della mia vita. Io dormivo su una branda in via del Babuino. Non ero né de né pei, il mio partito d'Azione non c'era più. Il male maggiore era per me il Fronte popolare, la de mi sembrava il male minore». Per molte ore, quel giorno, la radio martellò gli italiani con notizie di scarsa partecipazione alle urne, «salvo nei quartieri operai». L'influenza sull'andamento delle votazioni fu enorme. «Feci tutte quelle trasmissioni per esortare a votare. Credo di avere esagerato; ma credo anche, in piena coscienza, che aver contribuito a elevare le percentuali dei votanti abbia pesato sull'esito. Non presi ordini da nessuno. In realtà non ho nemmeno modificato le cifre. Le ho soltanto spostate nelle ore. Se alle 20 io davo le percentuali del primo pomeriggio, risultavano naturalmente basse. E l'ascoltatore ne traeva le conseguenze. Sono stato attaccato, per questo. Io lo considero uno fra i meriti maggiori della mia vita. Se quel giorno avesse vinto il Fronte popolare noi non saremmo qui a parlarci, ma scapperemmo come gli albanesi o litigheremmo come gli jugoslavi». Non furono solo attacchi sui giornali. Il 14 luglio, giorno dell'attentato a Togliatti - altro memorabile servizio del suo Gr -, gli telefonarono: «Si raccomandi alla giustizia del popolo». «Eppure io sono sempre stato in buoni rapporti con Togliatti. Lo avevo fatto parlare alla radio appena sbarcato in Italia, lo considero l'uomo politico più intelligente che ho conosciuto, insieme con Malagodi». Più difficili i rapporti con Fanfani, l'uomo del «male minore». «Mi mandava a chiamare, nelle campagne elettorali, si lamentava perché dai resoconti del giornale radio sembrava che tutti attaccassero la de. Aveva ragione. Ma tutti i partiti avevano interesse a strappare voti alla de. L'unica soluzione sarebbe stata quella di abolire i resoconti». Fanfani trovò una soluzione diversa qualche anno dopo, quando mandò alla Rai Bernabei. Con i direttori generali precedenti, ricorda Piccone Stella, «io avevo la massima libertà che si può avere in un ente come la Rai». Con Bernabei, non fu più possibile. Veniva dal giornalismo, era l'uomo della de, ed era consuocero dello stesso Fanfara, allora presidente del Consiglio. «Nel 1962 Fanfani mi chiamò ancora una volta, mi chiese che co- sa potesse fare perché io andassi d'accordo con Bernabei. Gli risposi ricordando Francesco I e Carlo V, il re cattolicissimo e il re cristianissimo che si facevano sempre guerra. Il Papa li mandò a chiamare, chiese a Francesco I perché non andassero d'accordo. Ma noi andiamo d'accordo, fu la risposta, pensiamo la stessa cosa. Lui vuole i Paesi Bassi, e io pure. Ecco, anche Bernabei vuole i servizi giornalistici. Soltanto che io li ho da 15 anni». Voleva dirgli anche un'altra frase, prima di andarsene: «E io non sono il consuocero del presidente del Consiglio». Ma l'ha tenuta per sé, fino a oggi. «Fanfara mi aveva dedicato un'ora del suo tempo, mi aveva anche offerto un caffè, non mi sarebbe parso gentile. Lo dico solo ora a lei». Da allora Piccone Stella ha visto dall'esterno la lottizzazione crescente, la contesa fra le fazioni polìtiche. L'esperienza fatta non gli consente troppe illusioni. «La lottizzazione c'è sempre stata e sempre ci sarà, tranne nei Paesi in cui si riesca a mettere il giornalismo radiotelevisivo nelle stesse condizioni del giornalismo stampato. Ora siamo passati da un monopolio all'ente uno e trino. E' meglio, certamente, sentire tre voci. Ma per assicurare quelle tre voci, la lottizzazione diventa inevitabile: e si è aggravata. Se per entrare al Tg2 un giornalista deve prendere la tessera del psi è come ai tempi del fascismo. Anch'io, allora, avevo dovuto prendere la tessera, per essere assunto». L'idea di sostituire i direttori, idea che parte dagli stessi giornalisti televisivi, lo lascia molto scettico. «Non si riacquista la libertà cambiando il direttore». Pensa che la soluzione sia piuttosto in tanti enti radiotelevisivi, come ci sono tanti giornali. «Si parla sempre di servizio pubblico. Ma questa è un'idea napoleonica. Anche i giornali, in democrazia, sono un servizio pubblico». E l'uomo che ha dato più parole all'etere, oggi ammette di preferire la parola scritta. «Io ora sono libero, posso ascoltare la radio, guardare la tv; ma leggo i giornali. Perché? Perché quello che riesco a sapere del mondo posso saperlo solo attraverso il giornale stampato». Ricorda vari esempi di notiziari tv, tutti parziali. «Noi crediamo di vedere un documento; ma vediamo solo quello che uno ha scelto per noi. L'inganno nasce dallo stesso mezzo tecnico. Dieci servizi televisivi sulla Jugoslavia non ci danno quello che ci spiega in un solo articolo Enzo Bettiza. E' il vantaggio della parola scritta. E questo vantaggio durerà sempre». Dopo aver speso 30 anni a lavorare per radio e tv, e altri 30 a riflettere su quanto ha fatto, l'ottuagenario è convinto della sua confessione. Giorgio Calcagno «Se per entrare è necessaria una tessera politica siamo al fascismo» «Vogliono cambiare i direttori? Non si riacquista così la libertà» «Ora posso confessarlo: il 18 aprile 1948 forzai i dati dell'affluenza alle urne per spingere la gente a votare. Lo rifarei» a l a o , e , o a i l , l Da sinistra: Fanfani, Mussolini, Togliatti Qui accanto: Ettore Bernabei. In alto: Antonio Piccone Stella, alla consegna del premio Napoli per il giornalismo, all'inizio di dicembre '92. Nella foto grande: un vecchio studio televisivo