Onorevoli poeti dello sconcio, il primo cantautore e le mamme

Onorevoli poeti dello sconcio, il primo cantautore e le mamme LETTERE AL GIORNALE Onorevoli poeti dello sconcio, il primo cantautore e le mamme Se il libro non va metti una bestemmia Finalmente abbiamo saputo cosa fanno i nostri parlamentari dopo essersi spremute le meningi per rifilarci le ricorrenti stangate: scrivono versi pornografici. Bravi, poeti dello sconcio. Ma, riflettendoci, perché meravigliarsi? Perché solo i parlamentari dovrebbero aste• nersi dal turpiloquio e dalla pornografia? Un programma televisivo non ha audience, un film langue, un libro non si vende, una canzone non entra nella hit parade? Non preoccuparti, la prossima volta aggiungi una parolaccia e una bestemmia e tutto si sistema. Giorni fa il signor Angelo Guglielmi, giornalista e direttore di rete, ci spiegava, con tono cattedratico, che se la parolaccia è funzionale nel contesto in cui viene detta, è indispensabile, ma sono spesso la famiglie a non avere un rapporto corretto, con essa; insomma, non la capiscono (grave carenza culturale). Ma se non la capiscono, peggio per loro: se uno non apprezza l'arte è forse colpa dell'arte? L'Italia pullula di parolacce e la televisione è il loro regno. La più innocente è diventata il classico «vaffan...», ormai solo per educande. In rapida successione, troviamo poi il turpiloquio generalizzato di tanti spettacoli televisivi e non, fino a giungere a quello «intellettuale», che comprende principalmente l'insulto a Dio e a tutta la simbologia del cattolicesimo, in cui i maggiori specialisti risultano essere i cantautori più o meno drogati che suppliscono con la bestemmia alla voce che non hanno. Ma le parolacce non sono tutte uguali: c'è l'artista della parolaccia e c'è l'artigiano. Prendiamo il caso del sig. Paolo Rossi. Se leggi i giornali, è un coro compatto di elogi, nessuno che sgarri. Il critico parlerebbe male di sua madre piut- tosto che di Paolo Rossi; lo capisco, rischia la reputazione e forse il posto, con i miti non si scherza. Io, lo dico sommessamente e mi vergogno un po', lo trovo vagamente squallido e un tantino scialbo; sarà, come dice Guglielmi, che non ho un approccio corretto con la parolaccia? Giuseppe Sortino, Ragusa Quante sceneggiate per i figli soldati Ogni qualvolta l'Italia deve dimostrare di essere una nazione seria e non un complesso di famiglie; quando deve dimostrare di essere consapevole, che oltre ai diritti ci sono doveri di carattere internazionale - l'Italia fa parte della Nato - cominciano le lamentele pubbliche e collettive. Ricordiamo tutti le sceneggiate per la nostra partecipazione all'operazione «Libano». Ebbene quei ragazzi accettarono di andarvi e al loro ritorno in patria esisteva in essi un senso di fierezza: erano consapevoli di aver contribuito, come soldati e come uomini affinché in quella terra ritornasse la pace. Hanno capito, inoltre, che un uomo in un certo momento deve scegliere: o restare un vile, che significa rinnegare la propria gente, o dare il suo contributo come soldato e cittadino alla società di cui fa parte. C'è poi una cospicua rappresentanza di mamme che di chiasso e di lagna ne fanno tante; non concepiscono, ad esempio, che il loro figlio resti fuori casa a causa lavoro per cinque giorni alla settimana. Se poi questo figlio deve allontanarsi per prestare il servizio militare ne fanno una tragedia. Le mamme di ieri erano diverse, erano più forti di carattere, più consapevoli. Mia madre quando la salutai prima di partire per il servizio militare mi disse: «Sta attento, riguardati, ma fa il tuo dovere di sol- dato». Erano parole ferme senza lagna e, se ho potuto comportarmi con dignità in quel lungo servizio militare, lo devo anche all'alto insegnamento morale di quelle parole. Le stesse lamentele si ripetono con petizioni al governo, lettere sui giornali per la nostra partecipazione in Somalia, i nostri ragazzi son stati inviati laggiù per fare la guerra, non già per imporre a quel popolo le nostre leggi, ma unicamente per portare a quelle popolazioni aiuto di generi alimentari, conforto morale, umano e cristiano. Albino Porro, Asti I primi cantautori Gill e De Angelis Nel centenario della nascita dell'artista teatrale Odoardo Spadaro, si è scritto che il celebre «chansonnier» fiorentino fu il primo cantautore italiano. I testi di storia della canzone italiana riportano che l'aureola di primogenitura come cantautore spetta ad Armando Gill (pseudonimo di Michele Testa), cantante, attore e prolifico compositore di canzoni napoletane, fra le quali «'0 zampugnaro 'nnammurato», «Palomma», come anche di uno dei più grossi successi di tutti i tempi: «Come pioveva!». La sua stella brillò un decennio: dal 1916 al 1925. Altro grande compositore e cantante delle proprie canzoni fu Rodolfo De Angelis, il quale, dopo essersi esibito nei caféchantant e nelle riviste teatrali, nel 1939 aprì la casa editrice Dea, dove pubblicherà esclusivamente musiche da lui composte. Nell'arco di dieci anni scrisse più di trecento canzoni fra le quali «Ma cos'è questa crisi», «C'è troppa concorrenza», «Camilla», «Come mi gira la ruota». Fu un originale e ironico cantautore dell'epoca di Odoardo Spadaro. Ebbe la sfortuna di essere emarginato dall'ente radiofonico del tempo, cosicché la sua notorietà non fu pari alla sua bravura. Roberto De Gennaro, Torino And reotti, Cicerone Cesare e Catilina Leggo, fra le «Lettere al giornale» del 13 gennaio, quella del signor Luigi Piras di Cagliari, il quale, in polemica con la troppo - a mio parere - pubblicizzata lettera scritta dal sen. Andreotti nelle vesti di Cicerone junior, puntualizza che «Cicerone, nemico acerrimo di Catilina quando costui era indifeso per la tragica morte di Cesare, allorché aspirava al consolato, era amico del concorrente Catilina perché protetto da Cesare ecc. ecc.». Ritengo che sarebbe stato alquanto imbarazzante per Catilina sentirsi indifeso per la morte del suo protettore, dal momento che il celebre congiurato morì nel 62 a.C, cioè ben diciotto anni prima dell'uccisione di Cesare (44 a.C). Forse non guasterebbe ripassare un po' di storia romana. Aldo Barale, Cuneo Pane, vino e monetine per vivere la liturgia Con un bel pezzo di colore di Tino Ferrarotti, La Stampa di sabato 16 gennaio ha informato del fatto che nella chiesa di S. Stefano a Casale si è introdotta la «minimum tax» per le offerte raccolte durante la Messa: niente monetine, ma solo banconote ed un minimo di offerta. Presentare durante la Messa offerte di vario genere, necessarie per la celebrazione o per i fratelli bisognosi, non è una novità nella liturgia. Nell'anno 150 ne parla Giustino e all'inizio del III secolo Ippolito esorta i fedeli a portare ciascuno la propria offerta per l'Eucarestia: pane e vino per l'altare, altre cose per le spese di culto e per l'aiuto a chi è in difficoltà. Nell'XI secolo hanno il sopravvento le offerte in denaro, come gesto per esprimere la forza eloquente dei doni recati: la Chiesa è una fraternità, un corpo nel quale ogni membro è al servizio degli altri. Un tempo questo gesto si chiamava ■ «offertorio». Oggi «preparazione dei doni». Continua però ad avere lo stesso significato. La raccolta delle offerte durante la Messa non è allora un problema di portafoglio o di tasca personale del Parroco. E' il modo di esprimere, in quel momento della celebrazione, la partecipazione attiva dei fedeli al rito della preparazione dei doni. Spiace che i parroci intervistati sul fatto abbiano ignorato il significato e il valore di questo momento celebrativo. Felice Ferraris, Milano

Luoghi citati: Cagliari, Casale, Italia, Libano, Milano, Somalia, Torino