Io BOIA dello ZAR

Io In esclusiva mondiale il memoriale dell'uomo che compì la strage di Ekaterinburg Io BOIA ho ucciso un orai/uomo || MOSCA M ON è il memoriale di un pentito, ma non è nemmeno la dura ■ e fredda relazione di un boia, come quella che Jurovskij I 1 scrisse all'indomani dell'esecuzione di Ekaterinburg e già - 11 ampiamente conosciuta. Il documento, inedito, che abbiamo trovato in collaborazione con la rivista Rodino, nell'archivio presidenziale, contiene ricordi di un rivoluzionario convinto (Lenin lo definì «un comunista affidabilissimo»), ma che non rinuncia ad osservare con umanità le sue vittime. Per questi accenni il documento è rimasto inedito fino ad ora. Faceva parte di una serie di memorie degli «eroi della rivoluzione bolscevica» e come tale doveva essere pubblicato. Ma ciò non accadde per i giudizi troppo teneri riservati allo zar e alla sua famiglia. Jacob Jurovskij, nato in Siberia a Kainsk, nel 1878, è stato il carceriere e boia dello zar e della famiglia imperiale a Ekaterinburg dove faceva l'orologiaio ed aveva un laboratorio fotografico. Rivoluzionario «professionista», come scrisse una rivista del pcus negli Anni Venti, si era iscritto al partito nel 1905. Morì dopo lunghe sofferenze a Mosca nel 1938 per un'ulcera gastrica. Il memoriale, di cui pubblichiamo la parte centrale, è datato aprile-maggio 1922. A CURA DI Cesare Martinetti RICORDO un'estate, molti anni fa, ero bambino, in Siberia, a Tomsk, anno 1886-87, stavo seduto in I cortile e riflettevo su come si viveva male nel mondo. Pensavo che sarebbe stato bello arrivare allo zar e poterglielo far sapere, ma in modo che lui pensasse che questa voce gli arrivava dal cielo. Avevo 7-8 anni. Mio padre faceva il vetraio, la nostra famiglia era numerosa ed eravamo molto poveri. Abitavamo in periferia, a Pieskì, che vuole dire «sabbie», in un piccolo appartamento nel sotterraneo sulla via Millionaja, che ogni anno si allagava. Il proprietario dell'edificio, invece, aveva i suoi appartamenti ai piani superiori. Quella primavera il diluvio ci colpì di notte, mentre eravamo tutti a letto. Ricordo di aver chiesto a mia mamma: «Perché noi dobbiamo vivere in questo sotterraneo che si allaga sempre, mentre i figli del padrone e dei suoi parenti vivono sopra all'asciutto?». Mi rispose: «Meglio vivere poveri, ma onesti». Pensai: «Se avessi tanti soldi li distribuirei con piacere agli altri». Da allora pensieri di questo tipo non mi lasciarono più, avrei voluto trovare una via di uscita dalla nostra miseria. Nel 1890-91, Nicola, erede al trono, faceva il suo viaggio intorno al mondo. Si seppe che sarebbe passato per la Siberia e che doveva venire anche a Tomsk. E tutti l'aspettavano. In quel periodo ero apprendista orologiaio. Non provavo un interesse particolare a vedere l'erede. Un giorno arrivò. Il negozio dove lavoravo si trovava sulla via Pochstamtskaja, la principale che portava al palazzo del governatore. Così osservai il corteo dalle finestre. Ricordo l'erede come se fosse adesso, aveva delle piccole basette ed era molto bello. Attorno c'erano contadini a cavallo, con i sacchi sulle spalle. Ricordo un poveretto su un cavallo inagrissimo che, cercando di seguire gli splendidi destrieri del corteo, urtò a gran velocità all'angolo del negozio di Kornakov e si fece molto male. Fu una grande cerimonia e tutti sottolinearono il fatto che c'era bel tempo: poco prima dell'arrivo di Nicola una leggera pioggia aveva bagnato la polvere sulla strada, poi è venuto il sole. Era una giornata bellissima. Le persone grandi come l'erede hanno sempre la fortuna dalla loro parte. Questo fu il mio primo incontro con Nicola e la dinastia dei Romanov. Ricordo poi un'altra volta, avevo 15-16 anni, era una giornata di festa, a tavola, in famiglia, discutevamo degli zar. Mio padre era un uomo severo e non permetteva di essere contraddetto. Lui elogiava Nicola I, diceva che con il bastone aveva sapute insegnare al popolo. Non sono riuscito a trattenermi e gli ho detto che non vedevo niente di buono in Nicola I. Se proprio si voleva parlare bene degli zar, lo si poteva fare di Alessandro II perché aveva liberato i contadini e non era così brutale come Nicola I. Mio padre mi» ha lanciato contro una forchetta. Me ne sono andato di casa per due giorni. Avevo così fatto conoscenza completa con la dinastia, sia con i vivi che con i morti. Mio padre pensava di essere stato lui a lanciarmi la forchet¬ ta, ma credo sia stato Nicola I, che dall'aldilà voleva darmi un segno. Poi la vita mi ha fatto andare via anche la voglia di parlare degli zar: nemici, sfruttatori, sanguinari. Il destino ha voluto che mi incontrassi di nuovo con l'ultimo discendente della famiglia reale, ma in altre circostanze: quando ormai tutto il potere era nelle mani del governo di operai e contadini. Quello stesso Nicola che avevo visto a Tomsk era diventato zar ed era finito nella nostra gabbia. Nei primi di luglio 1918 ho ricevuto la delibera del comitato esecutivo del soviet dei deputati operai, contadini e militari degli Urali che mi designava comandante nel cosiddetto «palazzo della destinazione speciale» dove si teneva prigioniero Nicola II con la sua famiglia e il suo seguito: la moglie Alexandre Fiodorovna, le figlie Tatiana, Olga, Maria e Anastasia, il giovane Alexeij, erede al trono. E inoltre il medico Botkin, la dama di corte Demidova, il cuoco Kharitonov, il servitore Trupp e il piccolo Sednev, coetaneo di Alexeij e suo servitore. Le proteste del cuoco Il 7 luglio 1918 sono andato insieme al presidente del comitato esecutivo regionale dei soviet degli Urali compagno Bieloborodov alla casa dove ho assunto l'incarico di comandante dal compagno Avdieiev. Per quanto riguarda l'alimentazione, la famiglia riceveva la razione «sovietica». Ma dal vicino monastero portavano ogni giorno per lo zar burro, uova, focacce con ricotta ed altro. Ho permesso che entrasse solo il latte. Il dottor Botkin mi disse allora che i ragazzi avevano bisogno di altro perché la nostra alimentazione era troppo povera. Ma io ho rifiutato di trasmettere tutto eccetto il latte: avevano la razione che spettava a tutti i cittadini di Ekaterinburg. In città gli aumenti scarseggiavano e, siccome i miei prigionieri non lavoravano, ho pensato che potevano essere più che soddisfatti di quello che ricevevano. Il cuoco Kharitonov ha protestato dicendo che non era in grado di cucinare piatti con appena la quarta parte di una libbra di carne. Gli ho risposto che dovevano abituarsi a vivere non come zar, ma come prigionieri. La stanza dove viveva Alexandre Fiodorovna con l'erede aveva le finestre che davano sul cortile separato dalla strada da una palizzata di legno. Spesso si avvicinava e guardava dalla finestra. Così ima volta venne minacciata dalla sentinella. Si è lamentata con me, ma io le ho risposto che non era lecito guardare dalle finestre. Un'altra volta, mentre mettevo a posto il pozzo, Nicola mi ha avvicinato e ha fatto un'osservazione per attaccare discorso, ma io non gli ho risposto. Un'altra volta ancora, durante una passeggiata, Olga, una delle principesse, si è messa a parlare con una guardia lettone e gli ha chiesto dove aveva fatto il servizio militare. Quello le ha risposto che era stato in uno dei reggimenti dei granatieri e che in una parata aveva visto le figlie dello zar. Olga allora si è rivolta a Nicola con un'esclamazione: «Papà, è uno dei tuoi granatieri». Nicola lo ha avvicinato e gli ha detto «Salve», forse sperando di ascoltare la risposta che si deve al proprio comandante. Invece ha ottenuto un semplice: «Salve». In quel momento sono intervenuto io e la conversazione è cessata. Le figlie, soprattutto Tatiana, spesso aprivano le porte dove c'era la sentinella, cercavano di essere cortesi sperando ovviamente di rendersi amiche le guardie. Ma bisogna dire che i ragazzi erano abbastanza duri e queste piccole civetterie non hanno avuto influenza su di loro. La famiglia dello zar conduceva una vita semplice, direi da piccoli borghesi. Di mattina prendevano il tè, poi ognuno si occupava di qualcosa; le ragazze ricamavano e cucivano. Tra le sorelle le più intelligenti erano Tatiana e Olga che si assomigliavano molto, anche nell'espressione del viso. Maria, invece, non assomigliava alle prime due e se ne stava isolata, come se non fosse della famiglia. Anastasia, la più piccola, era molto carina; Alexeij, invece, aveva una malattia ereditaria, stava molto a letto e per farlo respirare lo portavano in braccio. Una volta ho chiesto al dottor Botkin di che cosa soffriva. Mi ha risposto che era un segreto di famiglia. Io non ho insistito. Alexandre Fiodorovna si comportava maestosamente, facendo pesare chi era stata prima. Per quanto riguarda Nicola si capiva che lui si trovava come in una famiglia normale dove la moglie è più forte del marito: la zarina aveva su di lui una forte influenza. Erano una famiglia tranquilla diretta dalla ferma mano della moglie. Nicola aveva le guance flosce e poteva essere scambiato per un semplice soldato di campagna. Tranne Alexandre Fiodorovna, nessuno appariva borioso. Se non fosse stata l'odiosa famiglia dello zar che ha bevuto tanto sangue dal popolo, si poteva considerarli come uomini semplici e non superiori. Per esempio, le ragazze andavano spesso in cucina, aiutavano a preparare da mangiare, ad impastare la farina, giocavano a carte, lavavano i loro fazzoletti. Portavano i vestiti semplici, nessun abito elegante. Nicola si comportava proprio «alla democratica». Portava sempre un paio di stivali rattoppati, nonostante ne avesse più di una dozzina di nuovi. Un loro grande piacere era fare il bagno, anche più volte al giorno. Ma c'era poca acqua e io l'ho proibito. Sembrava una famiglia innocua. Una messa in prigione Il ragazzo Sednev era talmente inserito nella vita di famiglia che non si poteva nemmeno pensare che fosse il servitore dell'erede al trono della Russia. Spesso giocava con il cane che dava sui nervi ad Alexandre Fiodorovna, ma ciononostante lei non gliel'ha mai impedito. Trupp e Kharitonov servivano i loro padroni con un attaccamento da cane. Il dottor Botkin era un amico fedele. Era legato ai Romanov con il cuore e con il corpo, condivideva tutte le difficoltà della loro vita. E' noto che Nicola ed i suoi erano gente religiosa. Un giorno mi hanno chiesto di orga- nizzare per loro una messa. Ho invitato un prete e un diacono, ma li ho avvisati che al di fuori del rito non avrebbero dovuto parlare con la famiglia. Durante la messa Nicola e Alexandre Fiodorovna hanno pregato con molta devozione. Quando sono stato nominato comandante della «casa della destinazione speciale» già si poneva il problema di liquidare la famiglia Romanov: i cecoslovacchi e i cosacchi stavano attaccando verso gli Urali e si avvicinavano sempre di più a Ekaterinburg. E inoltre sapevamo che Nicola aveva qualche rapporto con l'esterno. Data questa situazione, gravida di pericolo, l'epilogo si è accelerato. Mi hanno assegnato il compito della soluzione; un altro compagno aveva il compito di distruggere i corpi e far sparire le tracce. Il 16 luglio 1918, alle 2 di pomeriggio è venuto il compagno Filipov e mi ha portato la risoluzione del Comitato esecutivo di fiacùare Nicola; si diceva che era necessario far fuori tutti, anche il ragazzo Sednev, ma io ho deciso di salvarlo. Era stato stabilito che di notte sarebbe poi venuto un compagno al quale avremmo dovuto consegnare i cadaveri. La parola d'ordine era: «Spazzacamino». Ma né a mezzanotte, né all'I è arrivato lo «spazzacamino». Il tempo passava, le notti erano brevi. All'I e mezzo hanno bussato alla porta. Era lo «spazzacamino». Sono andato all'appartamento dello zar, ho svegliato il dottor Botkin dicendogli che tutti dovevano alzarsi e vestirsi perché dovevamo trasferirli in un posto più sicuro. Il primo a sparare Li ho attesi con calma, senza mettere fretta. Alle 2 ho trasferito le guardie nel sotterraneo e lì, da solo, ho condotto la famiglia. Nicola portava Alexeij in braccio. Ci siamo infilati in un locale preparato in anticipo. Alexandre Fiodorovna ha chiesto una sedia per sé; Nicola per il piccolo Alexeij. Ho dato la disposizione di portare le sedie. Alexandre Fiodorovna si è seduta, Alexeij pure. Si son messi lungo la parete laterale della stanza che era molto stretta. Nicola mi voltava le spalle. Ho annunciato che il Comitato esecutivo del Soviet dei deputati operai, contadini e militari degli Urali aveva stabilito di fucilarli. Nicola si è rivolto a me come se volesse chiedermi qualcosa. Gli ho ripetuto la risoluzione del Comitato e ho dato l'ordine di aprire il fuoco. Sono stato il primo a sparare e ho freddato Nicola. Gli spari sono durati a lungo, non riuscivo a far cessare il fuoco disordinato. Ma quando finalmente ci sono riuscito, ho visto che molti erano ancora vivi. Per esempio il dottor Botkin ere sdraiato appoggiandosi al gomito come fosse al riposo, con un colpo di rivoltella l'ho fatto fuori. Alexeij, Tatiana e Olga erano ancora vive. Anche Demidova. Il compagno Ermakov ha cercato di finirla con un colpo di baionetta, ma non c'è riuscito. Sono stato costretto a sparare a ciascuno, uno dopo l'altro. Jacob Jurovskij te ragazze lavavano ifazzoletti, aiutavano in cucina portavano abiti semplici Jacob Jurovskij, il boia dello zar e della famiglia reale La principessa Anastasia e, nella foto grande, la zarina Alexandre Fiodorovna con il piccolo Alexeij e lo zar Nicola II

Luoghi citati: Kainsk, Mosca, Russia, Siberia