Cosa Nostra ha aperto il suo congresso

Cosa Nostra ha aperto il suo congresso Cosa Nostra ha aperto il suo congresso Tre candidati per la successione alpadrino in cella L'EREDITA' DEL CAPO DEI CAPI ROMA OVE sono finiti, si chiede l'ufficiale dei carabinieri, tutti quei «bravi ragazzi» che stazionavano davanti a! bar della «rotonda» di via Oreto Nuova, a Palermo? Perché Ciaculli è più vuota del solito e la strada stretta che costeggia gli agrumeti della Conca d'Oro sembra una pista del deserto? Si, è vero: i tempi non sono dei migliori e Cosa Nostra è scossa dal terremoto per la cattura del padrino. Ma da questo a dire che siamo alla fine, ce ne corre. Adesso è tempo di contrattazione. Si parla di successione. S'è aperto il congresso di Cosa Nostra. Nessuno, ovviamente, è in grado di rivelare la data né il luogo dove si svolgerà. Poco male, perché come in tutti i congressi, la votazione, il discorso dal palco sarà soltanto l'atto formale, l'ultima «sceneggiata» di un lavorio discreto, fatto di consultazioni, patti, alleanze tra le diverse correntifamiglie. I congressi, come si sa, si vincono fuori dalla platea. La partita è difficile, non si vedono in giro figure carismatiche in grado di raccogliere la pesante eredità, assicurando la compattezza delle «famiglie». Una partita che si gioca sostanzialmente tra due, forse tre candidati. Uno è Leoluca Bagarella, un uomo cupo, dai sopraccigli neri e ravvicinati, feroce forse quanto il capo che è anche suo cognato. Dall'altro lato Pietro Aglieri, un giovane killer che per i suoi modi pacati viene chiamato «u signurinu», il signorino. In mezzo potrebbe starci un outsider, qualcuno che riuscisse a mediare tra i due blocchi. Forse anche qualcuno della provincia «super partes», magari il figlio di qual-' che patriarca che sta in galera. Si pensa a Giovanni Brusca, erede di don Bernardo, da anni padrone di San Giuseppe Jato, paese tanto caro a Riina. Già, don Totò. Il segretario è sott'accusa. Eccesso di autoritarismo, errori di prospettiva politica, hanno portato Cosa Nostra «a sbattere». Contro chi? Contro uno Stato che, seppure con gravi ritardi ed incertezze, non poteva certamente cedere sul nodo centrale: delegare cioè la politica alle organizzazioni criminali, come aveva rivendicato Riina con la «linea dura». Avranno avuto gioco facile gli ex perdenti, i palermitani, nelle contestazioni al segretario. Proprio Palermo era stata penalizzata da Riina, rimanen- do - per la prima volta nella storia di Cosa Nostra - senza il tradizionale ruolo «centrale». Una regola non scritta, avallata dalla «commissione regionale», aveva sempre dato per scontato che la «segreteria» dovesse andare a Palermo. Era lì che si facevano gli affari, lì risiedeva il luogo della politica, il governo, le segreterie dei partiti, le sedi delle grandi banche. Ma Riina quella regola la ignorò. E non fece il congresso. Non erano ancora entrati gli Anni 80, quando ai normali lavori congressuali preferì la guerra di mafia. Ecco come andò. Per far fuori i suoi avversari, don Totò aveva fatto ricorso alla «vecchia saggezza», la quale suggerisce che prima di eliminare il nemico diretto bisogna neutralizzare chi ne è garante «politico». Così caddero personaggi rimasti per anni nell'ombra, nomi mai sentiti se non da vecchi investigatori prossimi alla pensione. Riina voleva liberarsi di Stefano Bontade, candidato forte alla «segreteria» perché gradito ai «senatori» di Cosa Nostra, rappresentante dell'ala moderata che propugnava la linea della convivenza con lo Stato sintetizzata dallo slogan «Siamo per il quieto vivere» - nel rispetto delle vecchie regole consolidate. Bontade sosteneva questa strategia: noi siamo un potere, lo Stato è un altro potere. Lo scontro a noi non conviene: nessun governo può cedere alla violenza, neppure quello colombiano. Ergo, continuiamo come sempre: facciamo gli affari, appoggiamo alcuni politici, ma non pretendiamo più di quanto può essere garantito. Cosa? Una sorta di impunità, seppure dopo qualche anno di carcere, inevitabile «per occhio di mondo». In un confronto «democratico» don Totò sarebbe stato probabilmente battuto. Forse sapeva che un «congresso» sarebbe stato sfavorevole ai «falchi». Uccise, quindi, Bontade: ma solo dopo averlo privato del miglior appoggio «politico», quel don «Piddu» Panno di Casteldaccia, considerato una sorta di Corte Costituzionale della mafia. Poi fu la volta di don Gigino Pizzuto, grande saggio di San Giovanni Gemini, custode di mille segreti, l'uomo cui venne consegnato, per farlo sparire, il cadavere di Totò La Barbera, perdente nello scontro coi Greco. Poi, infine, toccò al vecchio Mineo di Bagheria. Così don Totò divenne «tiranno» di Cosa Nostra. In un primo momento si servì di don Michele Greco, «segretario» scialbo e di facciata, ma ufficialmente «rappresentante» della mafia palermitana e quindi a posto con la regola della centralità di Palermo. Dopo qualche tempo soppresse le «garanzie costituzionali», instaurando un «direttorio» di fedelissimi. Cosa Nostra non elesse più i propri capi, la «cupola» fu praticamente esautorata. Don Totò azzerò le famiglie avversarie, concentrando la sua ferocia sui palermitani. In provincia, d'altra parte, non aveva problemi. La rete «interna» era sempre stata a suo favore. Crebbe il prestigio di Caltanissetta e Catania, a discapito della mafia antica del Trapanese. Quasi vent'anni di potere assoluto, segnati da lutti, stragi. Tutto questo, ora, viene rinfacciato al boss in manette. Fino a far pensare che la sua cattura non sia stata proprio ca- suale. L'insinuazione fa sorridere i carabinieri, convinti che se Cosa Nostra avesse voluto mollare il «capo-padrone» lo avrebbe consegnato cadavere. E guardano con attenzione al «congresso». Chi sarà il nuovo «segretario»? Riina va via o tenta di resistere? Cosa Nostra ha bisogno di una faccia pulita. Le stragi di Capaci e via D'Amelio sono state il suo «5 aprile». Difficilmente Riina potrà gestire il «congresso» dal carcere. Tenterà di imporre uno dei suoi. Ecco una carrellata. Bernardo Provenzano, corleonese di ferro e braccio destro di don Totò, almeno fino a qualche mese fa? «Forse non c'è più», è l'obiezione dei carabinieri. La moglie è improvvisamente riapparsa a Corleone. Anche lei, come Antonietta Bagarella Riina all'indomani della cattura di don Totò, accompagnata dai figli. «In genere le donne ricompaiono in presenza di un evento traumatico». «Piddu» Madonia di Vallelunga è in carcere, condannato all'ergastolo. Tutti i Madonia di Resuttana, anche loro alleati dei corleonesi, sono nelle stesse condizioni e quindi fuori gioco. Santapaola? No, è quasi impossibile che un catanese possa arrivare alla poltrona di «segretario» di un'organizzazione che ha sempre considerato Catania come allevamento di «mezze tacche e ricottali». La segreteria deve per forza tornare a Palermo: solo così potrà essere garantito un effettivo cambio di «linea». Solo che all'orizzonte non si vede un candidato sicuro. Pietro Aglieri è troppo giovane. Quasi tutti i quarantenni sono troppo in- 5 guaiati con la giustizia. E allora? Forse uno della provincia, ma al di sopra delle «correnti» potrebbe farcela. Uno come Natale Rimi di Castelvetrano. Ma quello, il figlio di don Vincenzo, si trova prigioniero in Spagna. E Trapani? I Minore sembrano in difficoltà, mentre dicono stia acquistando punti un rappresentante di Alcamo che risponde al nome di don Vincenzo Milazzo, «tranquillo» latitante. L'aria da congresso è annunciata da una strana eccitazione, improvvisi «vuoti», inspiegabili assenze. Ad Alcamo, a Cinisi, a Salemi, nello sterminato Vallone che collega Caltanissetta con Agrigento, nella costa trapanese. Silenzio e calma, ma solo apparenti, perché una fitta attività diplomatica si svolge sotterraneamente. Auto dall'apparenza innocua tessono in lungo e in largo le campagne delle province siciliane. Ambasciatori insospettabili cercano di tenere in piedi collegamenti che dovrebbero garantire la sopravvivenza dell'organizzazione, in un momento difficile come quello attuale. Anche Catania palpita: dove sono i soldati di Benedetto «Nitto» Santapaola, accreditato come il «numero due» della mafia siciliana? Certo, tanti sono in carcere, molti altri non si sa che fine abbiano fatto, se ibernati in attesa di tempi migliori, oppure seppelliti neila «fossa comune» che accoglie i resti di tante vittime della lupara bianca- I carabinieri guardano e sorridono di prese di posizione avventate e trionfalistiche. C'è chi aspetta una reazione di Cosa Nostra. Il famoso colpo di coda della belva ferita. C'è chi, invece, ipotizza un periodo di tranquillità per dar tempo alle cosche di riorganizzarsi. C'è, infine, chi si culla sugli allori, illudendosi di aver vinto definitivamente la guerra contro Cosa Nostra. Osservatori poco attenti non vedono che sta venendo fuori lo scenario di sempre. Il «replay» di un film proiettato ogni volta che la mafia si è trovata in difficoltà per aver sbagliato qualcosa e si è vista costretta a cambiare, mentre subisce le conseguenze della repressione. No, non sembra proprio in agonia, la Piovra. E' scompaginata, naturalmente. Soffre dell'assenza di un vertice ormai immobilizzato, ma non siamo all'ultimo atto. Francesco La Licata Per la «nomination» sono in corsa suo cognato Bagarella il freddo killer Pietro Aglieri e Brusca, l'outsider H |l| I " Di fianco Michele Greco, detto «il H papa», uno dei leader storici di Cosa | Nostra. A destra i cunicoli del " bunker di Totò Riina