Ricominciamo da Woodstock di Furio Colombo

Ricominciamo da Woodstock LA FESTA Ricominciamo da Woodstock BNEW YORK ISOGNA occuparsi di questa festa perché è un simbolo. Invece del «Cecil De Mille» di Ronald Reagan, qui sta arrivando Frank Capra. «E' il ritorno a Woodstock, con in più il "Secret Service"», ha detto l'attrice Whoopi Goldberg. Quando Chuck . Berry e Little Richard si sgolano dal palco, Bill Clinton (Clinton, non Gore, non la signora o la figlia) si sgola con loro, canta senza ritegno, e cantano con lui ventimila persone. Quando Michael Jackson danza con l'esattezza di un mimo e la sua voce di clown bianco, tenendo in braccio il bambino malato di Aids, Bill Clinton un po' imbarazzato non nasconde gli occhi lucidi. Quando Barbra Streisand canta «God Bless America» nella sua versione più bella (tranne forse Ray Charles), Bill Clinton sale sul palco e l'abbraccia forte. E allora c'è qualcosa che appare subito impossibile o almeno improbabile. Ed è la «continuità» della politica americana. Ha senso parlare di queste cose nella suggestione di un paio di canzoni e di una decina di divi di Hollywood in festa benevola? Più di quanto non sembri. Perché il luccichio della festa non era un circo separato dal mondo. Dal bambino Macaulay Gulkin («Mamma ho perso l'aereo») a Goldie Hawn e Sally Field, da Chevy Chase a Jack Lemmon, i temi erano sempre gli stessi, elementari, se volete, però parole d'ordine di un periodo che comincia adesso. Dice Jack Lemmon: «Questa è una festa democratica...» e cade il teatro. Ma lui spiega: «Non intendo "partito democratico", intendo democrazia come qualcosa che include tutti». Michael Jackson canta per ricordare il piccolo Ryan, un bambino malato di Aids che in altri tempi era stato cacciato da I scuola, Bill Cosby offre al preI sidente una maglietta col vol¬ to di Dizzy Gillespie, il grande jazzista scomparso, un pacifista religioso e obiettore tenace. Tutti portano sulla giacca il nastro rosso di solidarietà con i sieropositivi. Tutti parlano di bambini, di pace, di società inclusiva, di memoria, di «diversità che è la forza di un Paese». Saranno cose semplici e anche banali, ma sono il materiale della politica. Compare James Osmos, l'attore diventato celebre per aver impersonato sullo schermo un professore che guida una gang di ragazzi assassini all'amore per la matematica. Dice: «Signori, io sono di origine nera, con un nonno spagnolo, una madre ebrea, sono nato in Messico e sono venuto qui come un immigrato illegale. Eccomi qui: io sono l'America!». Fuori dal teatro e dal grande circo della festa presidenziale, quell'America lascia il suo segno in tre luoghi di Washington. Uno è il muro dei caduti del Vietnam, quello di marmo nero, con 56 mila nomi, disegnato dalla ragazza cinese Maya Linn. Un altro è il «muro dei desideri», un tadze bao spontaneo creato dalla gente venuta a Washington (e certo non da coloro che stanno nei grandi alberghi). Migliaia di bigliettini sono stati incollati al muro, ciascuno con un consiglio per il nuovo presidente. «Per favore, Bill, non ti perdere nei dettagli, vai dritto». Il terzo è il cimitero di Arlington, la tomba dei due Kennedy. Si dice che la folla festosa di Washington ha fatto un grande andare e venire fra i balli. Ma una folla più grande, senza posti riservati e senza abiti da sera, è passata in file lunghissime a visitare 'i tre luoghi. C'è un senso politico? Per fare un esempio, questa folla, non pensa che domani riprenderanno i bombardamenti sull'Iraq. Furio Colombo ibo |

Luoghi citati: America, Arlington, Hollywood, Iraq, Messico, Vietnam, Washington