Il rito laico di Capitol Hill di Gabriele Beccaria

Il rito laico di Capitol Hill Il rito laico di Capitol Hill Duecento annidi appelli e di emozioni SOLENNITÀ' IL giovane Presidente, il vecchio poeta, lo stupendo discorso, la parata trionfale, il cielo terso e la neve abbagliante». Bill Clinton ricorda nitidamente quel giorno del 20 gennaio 1961 immortalato dalla descrizione di Arthur Schlesinger Jr. - quando John Fitzgerald Kennedy parlò all'America. «Le speranze di tutta l'umanità riposano su di noi», disse il neo Presidente. C'era un gran senso di speranza e di eccitazione. Clinton ha sperato di risvegliare quel fremito, ieri. Anche quest'anno, il rito dell'insediamento ha inaugurato un pezzo di futuro lungo quattro anni e ha lanciato contemporaneamente uno sguardo al passato. «Non si può più dire che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole. Questo capitolo della storia è tutto da scrivere». Il 42° Presidente aveva bene in mente le parole di un altro dei suoi eroi, il lontano predecessore Thomas Jefferson. Su Capitol Hill è tornata in scena una rappresentazione bicentenaria, che unisce la solennità del cerimoniale con l'allegria della kermesse, secondo i dettami della democrazia d'Oltreoceano. Ormai estranea al sentire degli europei, assomiglia alle feste che | accompagnavano l'insediamento dei monarchi del Vecchio Continente. É proprio al suo ex nemico, la Gran Bretagna, l'America in fasce si ispirò per celebrare il suo primo Presidente, re senza corona. L'oratoria assurse a fondamento del rituale politico della nuova nazione. Sebbene la Costituzione non prevedesse un discorso d'insediamento, ma solo uno scarno giuramento, George Washington forgiò una rivoluzione anche tra le parole e le abitudini. Usò come riferimento il «Discorso dal Trono» dei re d'Inghilterra, ma decise di rivolgersi alla folla, affacciato al balcone della Federai Hall di New York. Inventò un genere, una sorta di sermone laico, sulla falsariga delle cerimonie della Chiesa puritana della Nuova Inghilterra. Come in un sermone, Jimmy Carter - ultimo democratico a entrare alla Casa Bianca prima dei 12 anni di trionfi repubblicani e futuro maestro-consigliere di Clinton - parlò di lavoro, di famiglia, di uguaglianza nella legge. «Ridiamo insieme, fatichiamo insieme, preghiamo insieme», disse nella gelida e tersa mattina del 20 gennaio 1977. I democratici tornavano a sognare e Carter promise la rinascita di un progetto antico, lo stesso che «i Padri Fondatori disegnarono per la nazione e che ancora deve essere realizzato». Il 39° Presidente degli Usa citò i predicatori della Georgia e del suo Sud, i profeti dell'Antico Testamento e la Bibbia che gli aveva regalato la madre quand'era bambino. Anche lui, come i primi Presidenti, come il morigerato Jefferson, sfilò a piedi e arrivò alla Casa Bianca con la moglie Rosalyn e la figlia Amy, adolescente della stessa età di Chelsea Clinton. Carter cancellava l'onta del Watergate e quattro anni dopo ne avrebbe consegnata un'altra all'America: i 52 americani ostaggi per 444 giorni nell'ambasciata Usa a Teheran. Nell'81, nell'incessante gioco di specchi tra passato e futuro, il repubblicano Ronald Reagan si ispirò ai simboli democratici della Nuova Frontiera di Kennedy e del New Deal di Roosevelt per rimettere insieme i cocci di un'America che aveva voltato le spalle al partito di Andrew Jackson. Inventò un «Nuovo Principio»: «Non ho prestato questo giuramento per presiedere alla fine della prima economia del mondo. Il progresso sarà lento ma inarrestabile». L'onda lunga continuò con George Bush. «Dio, scrivi nel nostro cuore di usare il potere per aiutare la gente». Ancora un sermone laico, nell'anno 1989 Giurò con due Bibbie, poi sfilò per Pennsylvania Avenue con la tradizionale parata dei carri alle gorici. Dal Campidoglio alla Casa Bianca, dove avrebbe trascorso la prima notte da Presidente Probabilmente, gli venne in mente l'osservazione di Harry Truman: «Questo posto scric chiola e rumoreggia e puoi immaginarti Jackson o Andy Jo hnson, o qualche altro fantasma, trascinarsi da queste parti» Chissà se Clinton ci penserà. Gabriele Beccaria