«Un lavoro ben fatto» e i marines lasciano la Somalia di Giuseppe Zaccaria

«Un lavoro ben fatto», e i marines lasciano la Somalia L'amministrazione Clinton preme per un rapido disimpegno, pessimismo a Mogadiscio: la tregua non durerà a lungo «Un lavoro ben fatto», e i marines lasciano la Somalia Comincia il ritiro Usa, arrivano gli australiani Alle Nazioni Unite il comando MOGADISCIO DAL NOSTRO INVIATO Si chiama «Spirit of Australia», il Boeing bianco e rosso che sta rullando sulla pista dell'aeroporto militare. E' stato noleggiato dalla Qantas: ha appena portato a Mogadiscio parte del contingente che segna la fine dello spettacolo, e l'inizio della fase più dura. Novecento soldati australiani, comandanti dal colonnello Bill Mellor, si trasferiscono a Baidoa, nell'area a Nord-Ovest. Sostituiscono gli oltre 1100 marines del 2° Battaglione che da oggi tornano a casa, in California. Non è l'inizio del ritiro, ma solo la prima fase di quello che Fred Peck, portavoce del Corpo, definisce in marnerà un po' elusiva «redeployment», ricollocazione. «E' solo un primo passo - continua Peck -. Ci stiamo rapidamente avvicinando alle posizioni dalle quali dovremo passare le redini all'Orni». Non è l'annuncio di un ritiro (la decisione, eventualmente toccherà a Clinton) ma la simbolica sottolineatura di un epilogo. A giudizio degli americani, «il lavoro è finito, la Somalia oggi vive soddisfacenti condizioni di sicurezza, con qualche eccezione a Mogadiscio». Le loro truppe, entro tre mesi, dovrebbero ridursi dai 22 ai 10 mila uomini. Entro due settimane, il generale Johnston trasferirà all'Orni il comando delle operazioni. Quei 1100 marines che se ne vanno, stanno a significare che all'operazione «Restare Hope» si sotituisce qualcos'altro. Si apre la fase, infinitamente più complessa, che se dovrà dare alla Somalia vera sicurezza e un accenno di prospettive, rischia di protrarsi per molto tempo ancora, con l'Italia nel ruolo di protagonista. Oggi, alle 13,35, dall'aeroporto militare un «Lear 1011» decollerà con a bordo i primi 237 marines che tornano a casa. Entro dopo¬ domani, i 1166 uomini che erano qui dal 9 di dicembre saranno rientrati alla base di March. «Non allarmatevi, non ci sarà alcun ritiro», assicura il segretario di Robert Oakley, plenipotenziario americano. Anche il diplomatico, che ieri ha avuto un lungo incontro col suo omologo italiano, Enrico Augelli, ha tentato di sdrammatizzare. Augelli si chiedeva tra l'altro se con l'insediamento di Clinton anche lui non rischiasse di tornare a casa. Oakley ha risposto con una battuta tra l'ironico e l'amaro: «Negli Usa c'è gran richiesta di lavoro, è vero, ma penso che il mio posto non sarà poi tanto richiesto». L'impressione è che nei prossimi mesi le richieste di «lavoro» in terra somala cominceranno a farsi sempre meno frequenti. Se i sequestri di armi hanno in qualche modo ridotto l'attività dei predoni, i conflitti tribali paiono attraversare solo un momento di sospensione, né l'intervento mi¬ litare ha eliminato una sola delle ragioni di scontro. Prima ancora di pensare all'economia, in Somalia si tratta di ricostruire una parvenza di Stato. Un'impresa titanica, da cui è fin troppo chiaro che l'amministrazione Clinton intende defilarsi. Dieci giorni fa, John P. Murtha, capo di una delegazione del Congresso e parlamentare democratico della Pennsylvania, era stato chiarissimo: «Qui stiamo spendendo miliardi di dollari, e il bilancio americano non può sopportarlo». Probabilmente, nell'iniziare la «ricollocazione» del contingente, il generale Johnston sta anche tentando di saggiare il terreno: numericamente, la forza d'occupazione resta pressoché intatta, tra 15 giorni il passaggio di consegne dovrebbe trovare il contingente ancora molto agguerrito. Prima che il «redeployment» si trasformi in ritirata, c'è insomma tutto il tempo per valutare pericoli e reazioni. Fra i leader somali, qualcuno però sembra avere già fatto valutazioni del genere. Il generale Ai did, in un incontro con Augelli, ha dimostrato ieri di aver cambiato idea sui militari italiani : un mese fa non li voleva, adesso dice di apprezzarli molto. Ieri eravamo nella casa di Ah Ugas, 55 anni, già sindaco di Mogadiscio e oggi indicato come l'uomo della mediazione. Sarà perché aveva appena superato un attacco di colite, ma non ci è parso affatto ottimista. «Qui non si può parlare di ripresa né di elezioni se prima non verranno risolti tutti i problemi della sicurezza e della distribuzione del cibo. Adesso, in Somalia, all'interno di ciascun gruppo affiorano spaccature sempre più nette tra "politici" e "militari"». Insomma, dottor Ugas, lei crede che questa tregua reggerà a lungo? La risposta è una sonora risata. Giuseppe Zaccaria