Un secolo di calcio

E La prima partita in Italia si disputò nel gennaio 1893: erano tutti calciatori inglesi Un secolo di calcio E GENOVA RAN ventidue, eran giovani e inglesi. Vivevano tutti a Genova per ragioni di lavoro. E un giorno del gennaio 1893 scesero su un prato dietro la Lanterna, nella piazza d'anni di S. Pier d'Arena, per battersi in un gioco con la palla sconosciuto in Italia. Si chiamava foot-ball: «vescica piena d'aria calciata con i piedi», come tradusse un genovese di allora. Il gioco del calcio in Italia compie in questi giorni cento anni; e li compie, silenziosamente, a Genova. Anzi, a Genoa, come quei ragazzi chiamavano la città e come vollero scrivere nell'insegna del loro sodalizio. Il nome non è cambiato, dopo un secolo. Ha aggiunto soltanto «1893», che ricorda una primogenitura. E quella «v» in meno, che inutilmente il fascismo cercò di recuperare negli Anni Trenta, rimane lì, come un simbolo di storia, quasi un blasone araldico. Il Genoa fu fondato negli uffici del console inglese Fayton, per dare un'attività ricreativa ai connazionali che vivevano lontano dalla patria. Ed erano tanti, in quegli anni. L'atto di nascita porta la data del 7 settembre 1892, ma nessuno se ne accorse subito. Si era appena concluso il congresso fondatore del partito socialista, stavano arrivando Umberto e Margherita, per la grande festa colombiana, nella città dotata dei primi lampioni elettrici. I riflettori puntavano altrove. fte : ^^Snj ;— 1m:' Amore fra le terre di San Giorgio Le origini del nostro foot-ball sono tutte genovesi perché sono tutte inglesi, strettamente legate ai rapporti economici fra Genova e l'Inghilterra. L'amore fra le due terre di San Giorgio è una vicenda lunga, che risale all'inizio dell'Ottocento, come ci ricorda Giorgio Dona, storico dell'economia all'Università di Genova. «Dopo la caduta di Napoleone gli inglesi avrebbero voluto che Genova non andasse ai Savoia, ma rimanesse uno Stato autonomo, per farne poi una loro colonia». Il disegno non riuscì, per l'opposizione francese, ma Londra continuò a guardare a Genova, con una progressiva presenza in città. Da una parte c'era la nazione più industrializzata d'Europa, dall'altra il primo porto del Mediterraneo. Venne a Genova Byron, ci passò un anno Dickens («i suoi scritti su Genova ebbero una immensa influenza sugli inglesi»); due macchinisti navali, Wilson e Me Lare, ai tempi della guerra di Crimea vi fondarono una industria metalmeccanica prospera fino agli inizi del Novecento. E un commerciante di carbone, Mesurier, scrisse nel 1889 un libro su Genova che ancora oggi rimane fondamentale. «Si era innamorato di Genova perché sosteneva che i genovesi avevano lo stesso carattere degli inglesi», ricorda il discendente di Andrea Dona. Altri avevano scoperto Genova nel frattempo. Durante il secondo Impero i francesi; dopo l'avvento della Triplice i tedeschi. Ma proprio alla fine dell'Ottocento nella nascente industria italiana cresce la necessità del carbone, e il carbone viene dalle miniere del Galles. Lo si carica a Cardiff, lo si scarica a Genova; il porto si riempie di marittimi inglesi. Il gioco più popolare d'Italia nasce dalla ricerca di quella fonte di energia, in un periodo fra i più difficili dell'economia mondiale. «Gli anni fra il 1888 e il 1895 sono i peggiori del secolo in Italia - ricorda il professor Doria e nel 1893 si tocca il fondo della crisi». Sotto questa stella i ragazzi del console Payton scendono in campo. La società si chiama «Genoa cricket and athletic club», la parola foot-ball apparirà solo più tardi. Ma sembra che partite di cricket non se ne siano giocate mai o quasi. Lo storico del Genoa, Edilio Pesce, che proprio in questi giorni ha pubblicato un libro con Camillo Arcuri, «Genoa and Genova, 1893-1993», non ne ha trovato le prove. In compenso lo sviluppo del foot-ball è rapidissimo. I ragazzi del Genoa giocano a Ponte Carrega, sulle rive del Bisagno, nella località che i genovesi chiamano la Siberia: «U puntu ciù freidu de Zena», sempre battuto dalla tramontana, come ci ha detto un personaggio ultraottuagenario, «u vegiu della Val Bisagno». (E' l'unico che sia stato in grado di indicarci il luogo esatto dove sorgeva il primo campo, ora coperto da un supermercato). E a Ponte Carrega accorrono sempre più numerosi i giovani genovesi, con un po' di curiosità e tanta invidia. «Guardavano a occhi spalancati quello spettacolo», ci ricorda Pesce. In campo non possono entrare, il gioco è per soli inglesi. Per fortuna trovano un alleato nel dottor James Spensley, medico, della colonia inglese a Genova dopo vari vagabondaggi nell'Impero, che è il portiere della squadra e vincerà sei fra i primi sette campionati italiani, dal 1898 al 1904. «U megu goalkeeper» nell'assemblea del 10 aprile 1897 strapperà un voto a maggioranza perché siano ammessi nel Genoa anche gli «italian man». E i primi a presentarsi sono i rampolli dell'alta borghesia, con alcuni nobili. Arturo Pasteur, imprenditore dolciario, ci ricorda il nonno, Edoardo, che fu il primo italiano in squadra, seguito dal fratello Enrico. Edoardo Pasteur, paren- te del famoso scienziato, fu tre volte presidente del Genoa (l'ultima dopo la seconda guerra mondiale) e vinse sei titoli italiani come mediano destro; al nipote ha lasciato un grande dossier, ma neppure una medaglia. «Non guadagnavano.niente, ognuno si comperava la maglia e le scarpe ! per poter giocare». Quando il nipote, promettente boy dèi Genoa all'inizio degli Anni Cinquanta, disse che aveva avuto una offerta di trasferimento al Modena, trovò in casa la più recisa opposizione. «Non potevano pensare che mi dedicassi a una cosa così poco seria come il foot-ball», ci dice. Là squadra si manteneva con le offerte, pochi incassi. Pesce ha trovato un raro documento del 1899, con le cifre di una partita a Ponte Carrega. I biglietti avevano fruttato 264 lire, fra le spese erano indicate lire 3 per tracciare le linee bianche sul campo e lire 10 per le seggiole destinate agli spettatori. Il campionato italiano era già al suo secondo anno di vita. Ma qualche lira, nonostante tutto, circolava. Nel 1904 il presidente-mediano Pasteur offrì al Milan 15 lire per ogni giocatore se la finale del campionato, anziché a Milano, si fosse giocata a Ponte Carrega. I milanisti, che erano in difficoltà, accettarono. E il Genoa vinse il titolo. Gianvittorio Cauvin, uno fra i protagonisti della vita economica genovese, per tanti anni presidente della Camera di commercio, figlio di un presidente del Genoa, ci mostra un raro documento notarile del 1911, negli uffici della sua centenaria azienda. E' un prestito triennale di 1500 lire che il nonno, Vittorio Cauvin, concede al Genoa, con l'interesse del 5 per cento. Il denaro, quei genovesi, sapevano come amministrarlo. Vittorio Cauvin fu anche vicepresidente della squadra, era un sostenitore fanatico, rissoso, «quando mi portava con sé alla partita usciva sempre con l'ombrello, anche se c'era il sole, perché non si sa mai"». E il nipote ricorda le sue grida dagli spalti, in anglo-genovese. «L'inglese non lo sapeva, ma i termini del foot-ball sì, mescolava tutto». «Mia u back», indicava al nipote, per segnalargli la mossa di un terzino. «Referee gundùn», quando voleva insolentire l'arbitro. «Quellu belin du linesman», per il guardalinee. A Genoa, con o senza «v», l'inglese correva, da Ponte Carrega al nuovo stadio: dove la società si trasferì quando prese in affìtto, nel 1910, il campo del marchese Marassi. «Aggiustavano le parole - ricorda Cauvin -. Dicevano opsai, per off-side, ensi, per hands; ma nessuno avrebbe detto fuori gioco o fallo di mano». C'era una parola che nessuno sbagliava: il «mister», una figura nata proprio a Genova, nel 1912. «Fino ad allora non esisteva in Italia il personaggio dell'allenatore - ricorda Pesce - la squadra doveva aggiustarsi con il capitano». Arriva il «mister» Arrivò dall'Inghilterra William Garbutt e introdusse una rivoluzione. Era un nazionale inglese che si era infortunato, non poteva più giocare; divenne il maestro degli altri. Con lui il Genoa vinse gli ultimi tre titoli italiani, il più glorioso nel 1922-23, senza mai una sconfitta. E via lui, non ne vinse più. Richiamato nel 1937 dal presidente Culiolo, riportò la squadra in auge. Ma era un cittadino di Albione, e con lo scoppio della guerra lo confinarono in Toscana. Andò a liberarlo un capitano dell'armata di Alexander che risaliva la penisola, si chiamava Garbutt. Era suo figlio. Con mister Garbutt finiscono gli inglesi dello storico club. Non finisce il segno dell'Inghilterra, nella vita della squadra. Rimangono il rosso e il blu, di cui molti genoani hanno dimenticato l'origine, voluti dai fondatori sulla maglia nel 1901. Sono i colori che aveva lo stemma della regina Vittoria, sua maestà imperiale nel 1893. «Genoa / merda / X sempre» abbiamo letto in questi giorni su un muro della Circonvallazione a monte. Era lo sfogo di un tifoso genoano, chiaramente, deluso per le ultime prove della squadra. Ma, per scrivere quelle parole, ha usato il rosso e il blu. Giorgio Calcagno L'inizio in un prato dietro la Lanterna. Gli italiani erano invidiosi, vennero ammessi solo 4 anni dopo La società conserva simboli britannici: il nome senza «v» e il rosso-blu delle maglie, ' proprio ieplofi della regnia Vittoria ' La squadra del Genoa nel 1904: da sinistra, in piedi: Edoardo Pasteur, Bugnion, Agar, Spensley, Paolo Rossi, il segnalinee Parodi, Dobbie, Shoeler Accosciati: Salvadè, Goetzloff, Senft, Enrico Pasteur e Pellerani Il figlio di «mister» Garbutt. In basso a sinistra, De Vecchi e Burlando contrastano Schiavio a Marassi, nel 1923