All'orfanotrofio di Mogadiscio «Caro papà italiano aiutami»

Trenta bambini abbandonati scrivono ai genitori: vieni a prendermi Trenta bambini abbandonati scrivono ai genitori: vieni a prendermi All'orfanotrofio di Mogadiscio «Caro papà italiano, aiutami» NELLA CITTA' DELL'ODIO MOGADISCIO DAL NOSTRO INVIATO Caro signor Franco Malvestiti, di Milano: le scriviamo dal Corno d'Africa per darle notizie di suo figlio. Renato non sta molto bene. L'abbiamo trovato ieri mattina nel quartiere di Shibis con una pallottola piantata nella testa. I ragazzini somali lo chiamavano «bastardo» e gli sputavano addosso. E lei, signor Antonio Di Bello, residente ad Ollomont, Valle d'Aosta, sappia che sua nipote Cristina, figlia di Gaspare Nutini, a 12 anni ha lo sviluppo di una bambina di 7. La madre, Concetta Musleri, ringrazia per gli aiuti. Quanto a voi, protagonisti più o meno clandestini di recenti avventure coloniali, tenete presente che almeno trenta ragazzini dal nome italiano (uno è delizioso, biondo, occhi verdi, ha da poco compiuto due anni e si chiama Massimo) vivono al centro di un quartiere devastato, in cameroni dove c'è solo una stuoia, mangiando quando capita, e sono costretti a difendersi anche dal razzismo rovesciato dei coetanei locali. Nel quartiere più devastato di Mogadiscio, a poche centinaia di metri dai ruderi di quella che fu l'ambasciata italiana, c'è un orfanotrofio che per uno scherzo della guerra è stato dimenticato. Ci vive una piccola colonia di «italiani»: ci siamo capitati quasi per caso. E' una delle storie più incredibili nelle quali ci sia mai accaduto di umbatterci. All'inizio era soltanto una voce: «A Shibis ci sono dei bambini italiani». Poi l'indicazione si era fatta più precisa: provate al vecchio orfanotrofio della Croce rossa. Era diffìcile trovare una scorta che si spingesse fin là: alla fine, due miliziani di Ali Ugas si sonò prestati. Per prudenza, ci siamo mossi in due. ' 0' Massimo Nava, inviato del «Corriere della Sera» che era con noi, appena varcato il cancello è sbiancato. Quel che resta dell'orfanotrofio è un polveroso, fetido villaggio che un insegnante, Ali Hersi, tiene in piedi con la disperazione. Fino a qualche tempo fa, la Croce rossa riusciva a far giungere qualche aiuto, adesso misteriosamente il flusso si è interrotto, e bisogna fare miracoli. «Qui ogni giorno mangiano più di 1200 bambini. Undici sono figli di somale e di europei, 17 hanno origine etiope, ne ho quasi 60 di padre arabo. E poi, gli italiani. Loro, devo tenerli protetti: dormono a casa mia». Quarant'anni fa Ah Hersi rimase orfano, e racconta di essere stato allevato da una famiglia italiana : è per questo che adesso sente il dovere di proteggere questi bambini dall'odio degli altri. Per i somali, i mezzosangue sono dei «gal», degli infedeli, «Nella zona gli "italiani" sono una trentina. Fino a due anni fa, ogni tanto ricevevano aiuto e protezione dall'ambasciata, ma poi l'ambasciatore è partito». Come, non sapete che da più di un mese ne è arrivato un altro? «No, non lo sapevamo». Nessuno sapeva, nessuno poteva sapere nulla. E da due anni questa piccola comunità privata di casa, di documenti, di contatti col mondo consumava un'esi- stanza miserabile e nascosta. Concetta Musleri Montini doveva essere stata molto bella: ha 40 anni, suo padre (Nicola Cirillo, da Catania) era maresciallo dell'esercito durante l'amministrazione fiduciaria. Ha con sé due bambine: una, Tamara, è una nipote, la madre è morta sotto un bombardamento. Cristina, detta Tina, ha 12 anni, un caschetto di capelli rossi, e parla un ottimo italiano. «Vedi, io sono bianca, no? E allora perché non mi porti con te? Io ho gli nkloro mi aspettano». Sventoli una lettera: è di due mesi fa, arriva da zia Amina, somala, e da Antonio Di Bello, l'uomo che l'ha sposata. Abitano in via Noucet Dessous 4 ad Ollomont, Valle d'Aosta. Come se da qui si potesse rispondere, hanno accluso anche 0 codice postale, 11010. «Stiamo tentando di tutto per portarti via, siamo disposti anche ad adottare le piccole. Abbiate fiducia, tenete duro». Tramite di questa corrispondenza è Elio Sommavilla, il geologo che vive qui da molti anni. «Vuole portarsi Tina? Lo faccia: se riesce a farla arrivare in Italia gliela dò anche subito». Concetta Musleri Contini è disposta ad ogni sacrificio pur di portar via le bambine da questa cloaca. La stanza in cui vivono è arredata solo con una stuoia e tre cuscini, sul pavimento scorre un rivolo di liquami. «Mio zio è italiano, mio papà era italiano, mia nonna è greca», canticchia Tina. Vuol dire che il padre (è morto nell'84) veniva da Milano. La cosiddetta «nonna» è la donna più anziana della comunità: si chiama Anna Diamante Bure ksakis, ha 64 anni. Molto tempo fa fu sposata ad un greco, di Candia. Da due anni, senza esito, manda suppliche e messaggi alle ambasciate elleniche di mezzo mondo. Poco più in là, nella villa che fu di un famoso avvocato, una bella signora quarantenne. Mar- jan Hussein, si occupa di altri otto bambini. Uno è piccolissimo, biondissimo, bellissimo: si chiama Massimo. «Suo padre probabilmente è un italiano; la madre, almeno, diceva così». Ma anche di lei si sono perse le tracce: era una «falashà», un'ebrea etiope. E' scomparsa da un anno e mezzo. C'è qualcuno, in Italia, cui questa storia ricordi qualcosa? E gli altri orfani, gli altri «gal», gli altri «italiani»? Sono sparsi per le vie intorno, ed è Anna Bureksakis, la nonna, ad accompagnarci alla loro ricerca. Sotto un albero ci sono quattro ragazzini neri che stanno insultando uno più chiaro. «Renato, vieni qua, fai vedere». Obbediente, il ragazzo si avvicina, scosta il ciuffo, mostra qualcosa che nereggia proprio all'attaccatura dei capelli. E' una pallottola. Renato Malvestiti, 16 anni, figlio di Giulia, mezzosangue somala, e di Franco Malvestiti («Lavorava qui, al porto di Mogadiscio»), è stato colpito alla testa due mesi fa da una pallottola vagante che si è schiacciata contro l'osso parietale. Nessuno l'ha mai curato. E' rimasto qualche settimana su una branda, poi si è ripreso. Da allora, porta il proiettile nel cranio: ogni sera, dice, gli viene un terribile mal di testa. E' un bel ragazzo, slanciato: visto fra noi, potrebbe essere scambiato per un calabrese o per un sardo. «Mio padre? L'ultima volta l'ho visto due anni fa, quando si sparava contro Siad Barre. Mi ha detto che tornava e mi portava i pantaloni nuovi». Sale docile sulla jeep: i ruderi del Porto Vecchio dietro cui si è accampato il battaglione San Marco distano un paio di chilometri. All'ingresso c'è una folla di piccoli somali: quando qualcuno nota la pelle di Renato, da un finestrino aperto della «Land Rover» crepita l'insulto di «gal» e piove una valanga di sputi. A questo punto, dovremmo parlarvi di un contingente intero che adotta un ferito. Di un capitano di vascello, Fabrizio Maltinti, che si danna l'anima finché non riesce a trovare una soluzione. I «marò» che cominciano a ricoprire il ragazzo di medicine e pacchetti di chewingum, che lo invitano a pranzo, mentre il capitano medico, Francesco Guadalupi, contatta via radio tutte le infermerie del contingente italiano. Ma solo questo racconto, meriterebbe pagine intere. Adesso Renato Malvestiti, il «gal» italiano, è a bordo della nave «San Giorgio». Gli hanno radiografato la testa per capire se il proiettile possa essere estratto o se è meglio che l'intervento si svolga in Italia. Enrico Augelli, il capo della nostra missione diplomatica, conosciuta la storia ha organizzato per questa mattina un primo invio di aiuti all'orfanotrofio. Forse anche Tina potrebbe essere mandata rapidamente in Italia. Può darsi che adesso qualcuno riscopra questi «italiani» dimenticati. Prima di salire su un mezzo da sbarco, Renato ci ha detto: «Dai, fammi andare a Milano, lì c'è lavoro. Vedi questi jeans? Me li sono fatti io. Ho imparato a cucire». Giuseppe Zaccaria Storia di Massimo, 2 anni e occhi verdi e di Renato, una pallottola in testa adottato dai marò della San Giorgio «Da grande voglio fare il sarto a Milano» Trenta bambini abbandonati scrivono k A Due immagini dell'agonia dei bambini somali nei campi profughi a Mogadiscio Qui sotto il dittatore deposto Siad Barre [FOTO AP e ANSA]