Il «padre» dei pentiti ho paura di Vincenzo Tessandori

E' Il «padre» dei pentiti: ho paura Minacciato il maresciallo che fece parlare Peci «LA MIA VITA NEL MIRINO» E' t CUNEO SOSPETTOSO. La voce si abbassa fin a diventare un sussurro, lo sguardo sembra cercare orecchie indiscrete. «Sì, Peci mi disse che se Moro avesse sputtanato Andreotti e Craxi, avrebbe avuto la vita salva. La cosa dovrebbe essere su due bobine che consegnai al generale Dalla Chiesa e ai servizi segreti». Forse, i misteri dellVAffaire Moro» non finiranno mai, questi li racconta Angelo Incandela, maresciallo delle guardie carcerarie di Cuneo, 57 anni, la fama del duro e l'aspetto di uomo stanco. E' stato lui a capire per primo che in Patrizio Peci, capocolonna delle brigate rosse a Torino, si nascondevano sintomi di pentimento, lui ha raccolto confidenze e ascoltato i segreti di molti fra i personaggi più tristemente famosi dell'altra Italia. E ora, in un pomeriggio umido e freddo, nella sua casa di Cuneo, dice di provare quello che in tanti anni di lavoro die¬ tro alle sbarre non ha mai avvertito: la paura. Quando arrivò nel supercarcere, nel febbraio 1980, Peci sembrava uno di quelli che agli inquirenti davano un'unica risposta: «Sono un combattente comunista». Ricorda il sottufficiale: «Venne subito isolato e io, che ci tentavo un po' con tutti, un giorno lo vidi dallo spioncino che fissava il soffitto. Forte della mia esperienza trentennale entrai. "Come va?" "Che vuoi?", mi rispose. Ma subito, gli scappò: "E' dura". Insistei: "Però... " "Però che cosa?". Forse è il momento, pen¬ sai: "Molti tuoi compagni collaborano, lo sai". Fece, come se non lo interessasse: "Ah, sì?". Non aggiunsi altro, la sera al direttore, Tommaso Contestabile,' dissi che, forse, quello avrebbe parlato. Era incredulo. La mattina dopo alle 8 mi chiamarono perché Peci voleva parlarmi. Per l'emozione mi tremavano le gambe. Dichiarò: "Io sarei disposto, però voglio uscire". Ribattei: "Ma che cos'hai da offrire?" "Smantello la colonna di Torino, e anche Genova, una parte del Veneto e Roma". Lui parlava bene e io lo ascoltavo, mi meravigliai di come si com- portava. Lo tenevo caldo, gli facevo avere biancheria, dolci, pasti particolari. Poi chiamai il generale Dalla Chiesa, alla Pastrengo a Milano, e gli raccontai tutto. "Ma vai a cagare". Mi disse proprio così. Poi si convinse». Incandela registrava i colloqui con un «Nagra» svizzero, avuto dai Servizi. • Cominciò così la storia di Patrizio Peci, «l'infame». In casa sua, un appartamento con il sa ■ lotto buono, la tivù dal grande schermo, alle pareti gli «encomi» in cornice, in bacheca una collezione di accendini, Incandela tiene una bobina nella quale è registrata la voce del brigatista che gli riferisce la proposta di una guardia: per 10 milioni, l'evasione in elicottero. A collaborare, Peci iniziò il primo aprile, nella caserma di Cambiano. Ma fino a quel giorno, attorno al carcere di Cuneo si combatté una battaglia senza esclusione di colpi: da una parte, il generale Dalla Chiesa, che non voleva mollare quell'osso, dall'altra i servizi segreti che avevano messo in campo quattro generali e tenevano d'assedio il carcere. Ricorda Incandela: «Ci fu riunione, una sera, in casa dell'onorevole Franco Mazzola. Vi partecipai col direttore Contestabile e il procuratore Sebastiano Campisi. Mazzola telefonò al generale Giulio Grassini, capo del Sisde, e costui disse di non far entrare i suoi uomini senza il permesso dell'autorità giudiziaria». Si parlò, allora, di un tentativo dei servizi di «rapire» il brigatista con un elicottero. «Ricordo solo questo: quando Peci entrò in cercere non era un pentito né dava segnali che lo sarebbe diventato. Chi raccolse quei segnali fu il maresciallo Incandela», dice Gian Carlo Caselli, che proprio ieri alle 13,20 nel suo ufficio torinese di presidente di corte d'assise ha ricevuto il decreto di nomina a procuratore di Palermo. I ricordi sono nitidi, ma i fatti ormai remoti. Aggiunge Caselli: «Da noi, ed è agli atti, il generale Dalla Chiesa ha ricevuto un'autorizzazione di. dieci righe per i colloqui con Peci. Di altri fatti, come i tentativi dei servizi, l'elicottero, ho avuto notizie soltanto giornalistiche, non so nulla se non per cose lette, insomma, niente di ufficiale». Ma che non si sarebbe fatto il possibile per salvare Aldo Moro al maresciallo lo confidò anche Tommaso Buscetta. «Mi disse: "Moro lo hanno voluto far ammazzare"». E Francis Turatello confermò. «Me ne parlò mentre lo mettevo in partenza per Nuoro». Dove il gangster venne squartato. E un altro, tale Panarelli, un detenuto comune, aveva detto al maresciallo che poteva scoprire la prigione di Moro. Si fece portare a Roma ma 3 giorni dopo tornò: «Non la vogliono trovare», disse. Anche alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, rapito a Verona dalle bierre, il maresciallo dette un contributo fondamentale. «Chi doveva esser cercato lo seppi da don Giuseppe Consolino, cappellano a Fossano. Lui lo aveva saputo da due militari, in confessione». Il maresciallo, che ha ricevuto minacce di morte, ripercorre la vita passata nel circuito delle carceri di mezza Italia e ricorda, con imbarazzo: «A Volterra mi chiamarono "il boia". Ma non ho mai picchiato nessuno, non potrei guardare negli occhi i miei figli. Certo, alla violenza ho dovuto rispondere con la violenza». Vincenzo Tessandori A sinistra il maresciallo delle guardie carcerarie Angelo Incandela. Di fianco Patrizio Peci, che in cella a Cuneo parlò del caso Moro