Una citta'-fata Morgana di Dacia Maraini

Una citta'-fata Morgana Una citta'-fata Morgana Dal Giappone alle ville barocche, nel '46 In anteprima una pagina del lungo viaggio I L porto abbiamo preso una carrozza che ci avrebbe portati a Bagheria. L'abbiamo caricata di tutti i nostri averi che erano in verità pochissimi, essendo tornati dal Giappone nudi e crudi, con addosso soltanto i vestiti regalati dai militari americani, senza soldi e senza proprietà. La carrozza prese per via Francesco Crispi, via dei Barillai, via Cala di porto Carbone, in mezzo a mozziconi di case buttate giù dalla guerra. Poi porta Felice con le sue due belle torri, il Foro italico, quella che una volta si chiamava Marina, vicino alla piazza Marina vera e propria dove si tenevano le più grandi feste palermitane, ma anche dove si eseguivano le impiccagioni, gli squartamenti. Proseguendo, abbiamo imboccato la strada del mare, piena di curve, ancora non asfaltata, fatta di «baiati» nei centri abitati e altrove semplicemente bianca di polvere e di terra. Lasciavamo alle spalle il monte Pellegrino con la sua forma di torrematta, una Palermo tutta detriti e rovine. Ci inoltravamo nella campagna estiva dalle erbe bruciate, i corsi d'acqua secchi e riarsi. A ricordare quel viaggio mi si stringe la gola. Perché non ne ho mai scritto prima? Quasi che a metterla su carta, la bella Bagheria, a darle ima forma, me la sentissi cascare addosso con mi eccessivo fragore di lontananze perdute. Una fata morgana? Una città rovesciata e scintillante in fondo a una strada pietrosa, che ad avvicinarsi troppo sarebbe svanita nel nulla? Stavo seduta fra mio padre, un uomo nel pieno della sua bellezza e seduzione (ho imparato, poi, quanto possa essere seduttiva e assillante Una figlia innamorata del padre) e mia madre, fresca e bella anche lei, molto giovane, quasi una ragazza, con i suoi lunghi capelli biondi, gli occhi grandi, chiari. Davanti a me le mie due sorelle: una dalla testa piccola e tornita, gli occhi a mandorla quasi cinesi nelle loro palpebre teneramente gonfie, che sarebbe diventata musicista, l'altra dalle braccia rotondette, la pelle rossiccia tempestata di lentiggini, che sarebbe diventata scrittrice. Il cavallo magro, un cavallo del dopoguerra che mangia fie- no sporco e di poco prezzo, faticava a portarci tutti, sebbene fossimo quasi privi di bagagli. Ma lo stesso mi sembrava di correre a perdifiato su quelle grandi ruote nere e rosse verso l'avvenire. Cosa ci avrebbe riservato la sorte? Passato l'obbrobrio delle bombe, della fame disperata, avevo perso anche quella assidua frequentazione con la cugina idiota. Sedevo tranquilla sul seggiolino imbottito della carrozza e mi guardavo intorno pensando che tutto era possibile. Annusavo incuriosita gli inusuali odori di gelsomino e di escrementi di cavallo. A sinistra avevo il mare di un colore crudo, verde vegetale. A destra la piana di ulivi e limoni. Per la prima volta respiravo l'aria dell'isola. Ne avevo sentito tanto parlare durante la prigionia in Giappone. Più che altro si parlava di cibi, dalla mattina alla sera, per soddisfare con la fantasia quella fame che ci prosciugava la saliva in bocca e ci rattrappiva le viscere. «Ti ricordi la pasta alle melanzane che si mangiava a Palermo? Con quelle fettine nere, lucide, sommerse nel pomodoro dolce»; «E quelle altre melanzane che si chiamano "quaglie" perché si vendono cotte, tagliate come se avessero due ali ai lati del corpo e sanno di anice e di fritto?»; «Ti ricordi le sarde a beccafico, arrotolate con dentro l'uvetta, i pinoli, quella tenera polpa di pesce che si sfaldava sulla lingua?»; «Ti ricordi i "trionfi di gola" che si compravano dalle suore, con la gelatina di pistacchio che sembra entrarti direttamente nel cervello tanto è profumata e leggera?». «E ti ricordi le "mirine di Sant'Agata", quelle paste in forma di seni tagliati, ripieni di ricotta zuccherata?». Improvvisamente la carrozza si infilava fra basse case accatastate. Dei cubi bianchi e celesti, senza finestre, con un balcone lasciato a mezzo sul tetto per quando si sarebbe costruito un altro piano. Era Ficarazzi? Ogni tanto, in mezzo a quell'affollarsi di case minute, una visione improvvisa, un palazzo dal colore rosato del tufo marino, le volute intagliate nella pie- tra, le statue sul tetto, le grandi scale che si aprono a ventaglio, le finestre finte, le balaustre finte, tutto un gioco di inganni per l'occhio inquieto dei signori di altri secoli, un gioco di pieni e di vuoti che suggerivano chissà quali languidi misteri architettonici. L'eleganza di un progetto di trompe-l'oeil da una parte, dall'altra la miseria di rifugi di pura sussistenza: muri tirati su con la calce, a braccio, senza neanche l'occhio del geometra a controllare. Sembra che si reggano, quei muri, solo perché si appoggiano l'uno all'altro. A momenti la strada si infilava dentro i vigneti, non si vedevano che uve appese e foghe di vite. Poi, di colpo, una curva e ci si avvicinava al mare, fino a sfiorarlo. Si vedevano i ciottoli bianchi e l'acqua che fiaccamente li copriva e li scopriva con un movimento lento, dolcissimo. In Giappone non avevo frequentato il mare. I primi tempi stavamo a Sapporo, fra le nevi di un eterno inverno. In certi giorni di gennaio dovevamo uscire dalla finestra perché la porta di casa era sepolta sotto cumuli ghiacciati. Poi ci eravamo trasferiti a Kyoto dove avevo imparato il dialetto locale. Poi à Nagoya, sotto le bombe. Come dimenticare lo splendore sinistro di quelle esplosioni? La notte illuminata da palloni di luce accecante che scendevano lentamente, lentamente, come se non sapessero in realtà se andare verso l'alto o verso il basso. Ma gli aerei sapevano bene cosa farne di quella luce sospesa che serviva loro per ricognizioni notturne e bombardamenti nelle ore in cui tutti dormivano. Il sibilo delle bombe squarciava l'aria. E poi, ecco, un tonfo lontano. Avevo imparato a distinguere le bombe pericolose da quelle più innocue. E, con la ferocia di chi pensa solo alla sua sopravvivenza che è appesa a un filo giorno dopo giorno, mi godevo la meraviglia di quelle giostre notturne sopra la città vicina. Sapevo che altre notti si sarebbero schiarite anche per noi e ci saremmo precipitati, correndo, dal letto al rifugio mentre le schegge assassine volavano come mosche nell'aria tiepida della notte. Dacia Maraini «Angeli coraggiosi e gente feroce: si può fare poco è un Paese d'eccessi» La villa di famiglia, la nobiltà isolana i primi turbamenti e le ribellioni Fosco Maraini con la famiglia nel I960: da sinistra la madre Topazia Alliata, e le tre figlie Dacia, Yuki (che vuol dire «neve»). Toni. Sopra, Dacia Maraini in un'immagine recente

Persone citate: Dacia Maraini, Fosco Maraini, Morgana, Topazia Alliata

Luoghi citati: Bagheria, Ficarazzi, Giappone, Palermo, Sant'agata