Due Presidenti per una crisi

Due Presidenti per una crisi Due Presidenti per una crisi Bush sta decidendo la politica di Clinton . « l;ri nv 111 n LE immagini sono queste. IV presidènte eletto Clinton fa il gesto tipico di mettere e togliere gli occhiali dell'uomo giovane che ha appena scoperto di essere presbite. Lavora con testardaggine e scrupolo a preparare la prossima politica americana. Lo vediamo conversare con i nuovi ministri. Lo vediamo fare alcune sobrie dichiarazioni sui problemi che lo aspettano (il deficit federale è aumentato, i posti di lavoro diminuiscono, il costo della salute ha impennate a ritmo sempre più allarmante). Lo vediamo mentre annuncia che volerà in Messico a incontrare il presidente Salinas, tradizionale appuntamento dei nuovi leader americani prima delle celebrazioni in Pennsylvania Avenue. Intanto il presidente in carica Bush ha dato l'ordine di far partire le portaerei per la Somalia, ha messo migliaia di uomini con la bandiera americana nella «missione Speranza» in quel Paese, rivede ogni giorno i piani militari, dal volo degli elicotteri alla distribuzione degli aiuti alimentari, e manda lettere al segretario generale dell'Onu. Ma poiché i serbi minacciano di entrare nel Kossovo, fa prontamente sapere a Belgrado che quel gesto sarebbe considerato aggressione e porterebbe un immediato intervento. Il suo capo di Stato maggiore annuncia di essere pronto a imporre il controllo dei cieli sulla ex Jugoslavia. E non appena i satelliti mostrano che una batteria di missili iracheni è stata spostata al di là del 32° parallelo - la zona interdetta ai voli di Saddam Hussein, per proteggere i curdi - scatta l'ultimatum americano con decorrenza immediata. Per dare peso a quell'ultimatum, una parte della flotta Usa lascia la Somalia e si dirige verso il Medio Oriente. Segno che la potenza americana è pronta e che Saddam Hussein farebbe bene a prendere sul serio l'ultimatum. Su tutto questo si possono fare riflessioni e accendere dibattiti di politica internazionale: la forza di una sola potenza, il dovere di intervenire, il rapporto fra la grande potenza e le Nazioni Unite, il rapporto fra il Primo e il Terzo Mondo, fra Stati Uniti e alleati. Per molti americani c'è, però, una questione interna più urgente: chi governa? Infatti da un lato c'è il dato rassicurante della Costituzio ne. Un presidente dispone di poteri pieni e intatti fino all'ultimo istante del suo mandato, dunque fino alla mattina del 20 gennaio, alle ore 11, quando Clinton presterà giuramento. Dall'altra c'è un fatto che non era mai accaduto: l'esercizio di questi poteri, in modo drammatico, sulla scena del mondo, a pochi giorni, a poche ore dal momento di lasciare la Casa Bianca. Che cosa motiva George Bush? Certo la persuasione che questioni urgenti, come la sfida di Saddam Hussein (che probabilmente si era illuso di trovare un vuoto di potere) non possono aspettare e che si deve agire subito, anche negli ultimi giorni, nelle ultime ore da Presidente. Che cosa dovrebbe fare Bill Clinton? Dal punto di vista della forma e anche nel nome della continuità politica del Paese e della sua immagine, ha fatto quello che doveva fare. Ha approvato, passo per passo, le iniziative del Presidente in carica, cominciando con la frase: «C'è un solo Presidente negli Stati Uniti. In questo momento il presidente è George Bush, e noi sosteniamo le sue decisioni». E' una bella frase. Ma corrisponde alla persuasione di colui che sarà Presidente al 20 gennaio? Credo che si possa rispondere sì, dal punto di vista delle linee generali, e - come dire - della mente americana. Si sa che Clinton ha a cuore il dramma della Bosnia, che non è tipo da restare insensibile alla Somalia e che non è probabile che lascerebbe mano libera a Saddam Hussein se intendesse dedicarsi di nuovo alla strage dei curdi. Però è impossibile non domandarsi quanto diverso potrebbe essere lo stile di Clinton e della sua amministrazione nei confronti delle Nazioni Unite, nei rapporti con gli alleati, nello specifico disegno strategico, forme, strumenti e persino tempi e modi di intervento. Il problema dunque non è se la politica estera americana sia sul punto di cambiare. Il problema è se Bill Clinton non vada a sedersi, fra pochi giorni, su una sedia in cui è destinato a restare per qualche tempo un fantasma. Il fantasma di cose decise troppo tardi da Bush, e troppo presto per Clinton. E qui va fatta una constatazione di cui non so trarre le conseguenze, ma che va annotata per riparlarne nel prossimo futuro. Si sa che la presidenza americana è un sistema di governo molto forte, con una responsabilità molto alta e personale del Presidente degli Stati Uniti. E tuttavia ciascuna delle decisioni prese dall'ultimo Bush (cioè dal Bush in procinto di abbandonare il potere) è avvenuta alla presenza di un Parlamento in carica e con pieni poteri. Il silenzio di quel Parlamento, degli esponenti di punta della vita politica americana, dei leader di maggioranza e minoranza, dei comitati degli Esteri e della Difesa, a prima vista dà una sensazione di omogeneità e compattezza del Paese. Ma crea senza dubbio il problema di un Presidente che non solo decide mentre sta per sganciarsi dal potere, ma è già sganciato dal Parlamento. Quando il Parlamento comincerà a parlare, quando Bill Clinton avrà giurato, quando avrà fatto la parata e la festa (se ci sarà la festa) lungo la Pennsylvania Avenue, e co mincerà a governare, non ere do che ci saranno correzioni drammatiche o smentite di questi ultimi atti politici di George Bush. Però ci sarà certo il dibattito, che finora non c'è stato, sulla sequenza più inso lita e anomala della politica americana in molti anni. Furio Colombo Il leader democratico difficilmente farebbe altre scelte ma agli elettori resta il dubbio su chi comanda a Washington A sinistra, il Presidente eletto Bill Clinton Ha già definito Saddam Hussein «un bandito» e approva l'operato di George Bush nel Golfo Persico e in Somalia ma pensa a un intervento in Bosnia Sopra, Edward Perkins, ambasciatore all'Onu ■» ^> iìS