Nella battaglia di Mogadiscio di Foto Ansa

Incerto il numero delle vittime Gli sconfìtti «Ci vendicheremo Voi stranieri fareste meglio a sparire» Elicotteri Cobra e tank Abrams travolgono i miliziani che rifiutano di consegnare le armi Nella battaglia di Mogadiscio Svolta in Somalia, i marines attaccano Aidid SOTTO IL FUOCO AMERICANO MOGADISCIO DAL NOSTRO INVIATO La Somalia è di nuovo in fiamme, mentre scrìvo dense colonne di fumo nero si innalzano a spirale dalla periferìa di Mogadiscio e l'aria è scossa dal rimbombo delle cannonate. Con un terrificante blitz aereo-terrestre gli Stati Uniti sono passati all'azione contro il generale Farah Aidid, il signore della guerra somalo che proclamava ai quattro venti di rincorrere la pace rifiutandosi nel contempo di disarmare le proprie truppe. Ci hanno pensato i marines ieri ad indurlo a cambiare idea ed è la svolta imprevista, fulminea, della crisi del Corno d'Africa entrata ormai da settimane in una pericolosa fase di stallo politico-diplomatico. Hanno rovesciato sui suqi seguaci un torrente di fuoco nel corso della battaglia a senso unico combattuta all'alba nella boscaglia di Oduin, a pochi chilometri dal centro cittadino. Una lezione esemplare, implacabile, che ha lasciato sul terreno da parte somala un numero ancora imprecisato di morti e feriti, pari almeno a una decina. Ma al di là del bilancio in vite umane, che si spera contenuto, la batosta inflitta dai soldati yankee è severissima sul piano militare. Distrutti non meno di 60 tra carri armati di fabbricazione russa e italiana, blindati, pezzi d'artiglieria e autocarri con mitragliere di origine cinese, saltati in aria numerosi depositi di munizioni, un intero accampamento ridotto in briciole. Dallo scontro la tribù Aber Gedir, del clan Hawiya, capeggiata da Aidid, esce con le ossa rotte sul piano dell'immagine interna oltre a perdere la posizione fin qui tenuta di interlocutore principale nelle trattative di riconciliazione nazionale in corso ad Addis Abeba. Da amica in passato chissà quanto sincera degli Stati Uniti, ai quali va imputato l'errore di aver puntato sul cavallo sbagliato, è precipitata di schianto nel rango degli avversari infidi perché bugiardi: aveva promesso il di¬ sarmo e non l'ha attuato. Da oggi la fazione di Aidid, finora la più muscolosa in termini di uomini (forse 40 mila) e di arsenale bellico tra gli 11 gruppi etnici che si spartiscono la Somalia del dopo-Barre, è diventata una tigre di carta. In futuro al massimo potrà ringhiare e mostrare i denti, tuttavia non sarà più in grado di gettare sul tavolo dei negoziati il peso della sua consistenza strategica. Tutto si è consumato nell'arco della nottata tropicale. Mercoledì sera dal quartiere supre¬ mo del generale Robert Johnston parte l'ennesimo ultimatum che va ad aggiungersi ai precedenti ukase rimasti inascoltati: dovete consegnarci le armi entro le 6 del mattino seguente, facciamola finita con la farsa di agitare il ramoscello d'olivo e tenersi ben stretti i Kalashnikov. Il messaggio viene ripetuto a voce da una pattuglia americana che penetra nello schieramento degli Aber-Gedir: sarà accolta a fucilate, deve ripiegare in fretta. Alle 5,55 quattro elicotteri Cobra d'attacco con stelle e strisce sulla fusoliera grigia bucano le nuvole basse che da giorni soffocano Mogadiscio nella morsa dell'afa. Li tallonano quattro B-212 con il compito di dirigere la giostra infernale. Contemporaneamente sei giganteschi carri armati Abrams con cannoni da 105 sono pronti a muoversi in direzione degli edifìci che ospitano la 53 brigata corazzata di Aidid. Ancora un avvertimento ripetuto con i megafoni. «Arrendetevi, tra cinque minuti apriamo la danza». Non si muove foglia e alle 6 in punto inizia la sarabanda. Fuoco ad alzo zero, la caserma si affloscia, dal cielo i Cobra che volano bassissimi fanno piovere i missili e lo spettacolo mi serra lo stomaco. Gli elicotteri si dispongono in formazione, uno al centro, gli altri ai lati per proteggerlo. I bestioni d'acciaio restano immobili a meno di cento metri d'altezza, poi di colpo abbassano il muso e sputano le fiammate dalle armi di bordo. E la terra trema sotto i piedi. Sto a ridosso di un posto di blocco americano con l'illusione dell'incosciente di sentirmi incolume grazie a un provvidenziale cumulo di macerie a trecento metri circa dall'apocalisse. Nel giro di pochi minuti il tanfo della cordite comincia a bruciare le narici, bisogna tornare indietro di corsa e cercarsi un altro riparo. Vedo un tank somalo centrato in pieno, adesso è la volta di una rampa di Katiuscia, il micidiale «organo di Stalin» ad esplodere in mille pezzi. In un amen finiscono al macero camion cingolati, cannoni pesanti, decine di autocarri equipaggiati con bazooka anticarro. Una mattanza che provoca un solo ferito di striscio da parte americana. Dirà più tardi il portavoce Usa, colonnello David Peck, che sono stati «flattened», cioè appiattiti, 24 edifìci presidiati dalle forze di Aidid e che i marines hanno neutralizzato anche una postazione antiaerea. I soldati ci cacciano dalla zona che all'epoca della pseudoprosperità comprendeva svariati stabilimenti industriali e la manifattura tabacchi, però facciamo in tempo a individuare quindici prigionieri con le mani alzate, comprese tre donne. Un uomo sfuggito alla cattura mi tira per il braccio e sibila in perfetto italiano: «Gli americani ci hanno tradito, non dovevano comportarsi così. La pagheranno cara. Preavvisa i tuoi amici che è in arrivo la nostra ritorsione contro i contingenti stranieri. E' meglio per voi tutti che non vi facciate più vedere in giro per le strade di Mogadiscio». Dopo il carosello aereo scattano i fanti del mare per effettuare un rastrellamento capillare. Gli armamenti scampati al macello vengono caricati sui camion e portati nel campo base americano, nei pressi dell'ambasciata, tramite una spola di automezzi e la folla fa ala in silenzio al loro passaggio. Dal centro di coordinamento multinazionale di «Ridare Speranza» fioccano intanto gli ordini: rafforzare i dispositivi di sicurezza. La comunicazione viene trasmessa al comando dell'operazione «Ibis» del generale Giampiero Rossi dall'ufficiale di collegamento italiano, il tenente colonnello Fulvio Tabacco. Alla Folgore e alla San Marco i nostri soldati si preparano a trascorrere un'altra notte di stato di massima all'erta a scrutare il buio attraverso i visori a raggi infrarossi. Piero de Garza rolli Incerto il numero delle vittime Gli sconfìtti «Ci vendicheremo Voi stranieri fareste meglio a sparire» Un marine sorveglia partigiani di Aidid arrestati A destra le armi strappate ai guerriglieri [FOTO ANSA]