«Tutti i farisei di Tangentopoli»

«Tulli i farisei di Tangentopoli» L'INTERVISTA MARIO CHIESA DAL TRIVULZIO AL PENTIMENTO «i giudici possono andare avanti cent'anni: non sono fuggito, ho voluto bere subito la cicuta» «Tulli i farisei di Tangentopoli» «Nessuno si salva, troviamo una via d'uscita» ( IMILANO NGEGNER Chiesa, lei è stato definito l'emonio dell'anno». Si sente il simbolo di Tangentopoli, il protagonista del grande terremoto del '92? «Sì, purtroppo. Potrei dire di essere uno strumento del Fato. Ma in realtà le cose sono più semplici: io mi sento solo uno che faceva parte di questo sistema, il sistema dei partiti. Non diverso e non peggiore di tutti gli altri». Ma colpevole o non colpevole? «Non più colpevole di chi in galera non ci è andato. Non perché più onesto di me, ma semplicemente perché miracolato». Che cosft vuol dire «miracolato»? «Che quando crolla una casa uno può anche avere fortuna e non esserne travolto. Così a Milano. E' caduta Tangentopoli, e qualcuno, più fortunato di me, che pure c'era dentro fino al collo, è rimasto in piedi». Quando dice «qualcuno» ha in mente un nome in particolare? «Sì, più d'uno. Sono quelli che credono, ancora oggi, di potersi tirar fuori dal sistema. Voglio dirlo chiaro e tondo: nessuno può chiamarsi fuori. Anche il più onesto è figlio legittimo di questo sistema che intreccia in modo perverso affari e politica. Anche quando dice: io non c'ero, non me ne sonò accorto, non ho sentito, non c'entro con quei mascalzoni... Fariseo: ecco che cos'è chi parla in questo modo. Sono stato chiaro?» Ingegnere, lei è stato l'inizio di tutto, la leva che ha scardinato il sistema. Sente il peso di questa responsabilità, qualcuno dei suoi vecchi amici glielo rinfaccia? «La sento eccome. Il carcere è un'esperienza devastante e formativa nello stesso tempo. Ma è soprattutto un fatto drammatico, tremendo, quando tocca chi non è culturalmente, mentalmente e socialmente preparato. Nessuno può parlare del carcere se non l'ha sentito sulla propria pelle. Troppo facile fare dell'ironia, troppo facile liquidare tutto con la parola "ladro"». Lei adesso dice che il carcere è stato addirittura «formativo». Perché? «Perché quando uno è costretto a una carcerazione senza essere preparato, va a fondo e finisce per riflettere seriamente». Ingegnere, sta dicendo che lei è davvero pentito? «Non c'è dubbio: sono pentito e distinguo fra pentimento giuridico e morale». Cosa vuol dire? «Io sono pentito moralmente per aver subito le regole del sistema. Intendiamoci. Questo sistema non è cresciuto solo a Milano: si è sviluppato in tutto il Paese. E ha indotto molta gente che si è avvicinata alla politica con aspettative, compiti e interessi diversi ad accettarne la logica. Se accettavi la logica, bene. Altrimenti ti buttavano fuori, non c'è ombra di dubbio. Ecco la mia colpa: sono salito sulla giostra, ne ho accettato regole, rumore e velocità. Fino a cadere, travolto». E sul piano giuridico, qua! è l'effetto del suo pentimento? Per essere chiari: ai giudici lei ha detto tutto ciò che sapeva o tutto ciò che le hanno chiesto? ' «Ho risposto con quanto sapevo a tutto ciò che mi è stato chiesto». Lei dice che il sistema delle tangenti è sviluppato in tutta Italia. Ma allora perché Milano è diventata Tangentopoli? Perché è più corrotta di altre città? «No, questo no. Milano non è un'isola nera in un'Italia immacolata. Tutt'altro. Ha capito bene? Tutt'altro. L'inchiesta Mani Pulite è nata a Milano perché qui si è combinata una miscela esplosiva fra due fatti importanti: il calvinismo, cioè il moralismo tradizionale della città e il craxismo, che è nato proprio qui per poi conquistare l'Italia». Ma oggi la città trema e il craxismo è in crisi. Quel 17 febbraio '92, giorno del suo arresto, lei pensava che si sarebbe arrivati a questo punto? «No: era intellettualmente impossibile prevedere che si sarebbe arrivati addirittura all'avviso di garanzia a personaggi come Craxi e Ligresti. Ma ho capito che l'inchiesta avrebbe avuto uno sviluppo enorme, epocale, da crollo della prima repubblica, quando ho visto che i giudici non si fermavano. Andavano avanti e il meccanismo della corruzione cioè il legame fra mondo della politica e mondo degli affari - veniva svelato passo dopo passo. E allora ho pensato: questi giudici possono andare avanti per altri cento anni». Cento anni? «Certo, e i giudici lo sanno benissimo. L'unica a non volerlo sapere sembra proprio la classe politica. Quei politici che ogni giorno aprono il giornale e tirano un sospiro di sollievo quando vedono che non c'è ancora il loro nome fra gli inquisiti». Che cosa vuol dire, ingegner Chiesa, che l'inchiesta di Alani Pulite è solo agli inizi? «Dico un'altra cosa, dico di più. Dal meccanismo perverso politica-tangenti (se si ha tempo e voglia di andare avanti) non si salva nessuno. Ripeto: nessuno. E tutti sono figli legittimi di questo sistema. Io posso dirlo perché lo conosco bene. Ho cominciato nel '70, quando diventai segretario della sezione Musocco Vialba. Non sono uno yuppie io, nemmeno un rampante anche se mi hanno sempre defunto così. Vengo dalla gavetta e ho lavorato sodo: accendevo la stufa in sezione, andavo a incollare i manifesti, insomma, ho dato la vita alla politica fino a farmela distruggere». Sta dicendo che il Mario Chiesa uomo pubblico è morto per colpa della politica? «Sì. Perché se uno non accetta le regole del gioco non può fare politica attiva: al massimo dà una testimonianza, fa del volontariato. Perché, ripeto, o segue le regole del sistema o lo buttano fuori». Quando lei è entrato in politica, negli Anni Settanta, il sistema delle tangenti a Milano c'era già? «Non ho assistito alla nascita, probabilmente contavo troppo poco allora. Ma ho visto il sistema insediato e realizzato, perfettamente oliato negli Anni Ottanta, con Antonio Natali, era lui il gran maestro di tutto». Nella scala del potere a Milano, quale era il posto di Mario Chiesa? «Ho lavorato parecchio per la città, per il mio partito. Diciamo che ero uno che sicuramente contava moltissimo». Perché contava? Era il crocevia delle tangenti? «No, questa è una stupidaggine. C'è chi ha fatto da cassiere ai partiti e non si è mai candidato nemmeno a gestire un pisciatoio. Le tangenti servono a mantenere il partito e l'apparato. Uno conta nel partito quando ha riscontri forti sul piano elettorale, conquista preferenze, ha raggiunto un'immagine forte di credibilità come amministratore e manager». Lei era tutto questo? «Io passavo per un grosso manager, uno che aveva ereditato un letamaio e lo aveva trasformato in una clinica svizzera. Sfido chiunque a dire che non è così. Quando sono arrivato al Pio Al- bergo Trivulzio, nel 1986, i milanesi non donavano più una lira all'ospizio per la sua cattiva fama: luci basse da obitorio, puzza di orina, immagini di vecchi moribondi. Nell'arco dei miei sei anni le offerte e le donazioni sono tornate alla grande. E sa perché? Perché la gente vedeva i risultati: padiglioni nuovi, assistenza medica, apparecchiatura d'avanguardia: altro che l'immagine del lager. Io ero uno che contava sul piano dell'apparato, avevo i rapporti politici giusti, la mia parola aveva un peso negli equilibri milanesi e lombardi. Considerata l'età ero uno fra i primi dieci». Lei controllava un pacchetto di settemila voti. Che bisogno aveva di dirottarli su Bobo Craxi? «A Bettino li ho sempre dati com'era giusto, perché se li meritava. Era il politico più lucido, e se lo dico adesso che è in difficoltà, non mi accuseranno certo di piaggeria. Per Bobo il mio fu una specie di investimento, lo dico apertamente. Bobo era di prima nomina, aveva il problema di uscire bene; io ero uno dei più grandi elettori, avevo deciso di non candidarmi e volevo dare un segno forte delle mie capacità». Lei si considera un amico della famiglia Craxi? «Quando si assume un ruolo così importante in una campagna elettorale, il piano personale e politico tendono a sovrapporsi». Lei era dunque nel centro del potere di Milano. Qua! è stato l'errore fatale? «Non avere fatto l'ingegnere e basta. 0 meglio, non avere fatto solo il manager. Ma non avrei potuto. Inutile fingere». Perché? «Perché io ero lì per conto del sistema politico. Il presidente del Pio Albergo Trivulzio non lo sceglie la Confindustria o lo Spirito Santo: lo nomina il sindaco di Milano sentito il consiglio comunale. Sono scelte politiche. E si risponde al sistema». Quanti Mario Chiesa c'erano a Milano? «Si potevano contare sulle dita di una sola mano. E qualcuno è anche scappato». Chi? «Giovanni Manzi, presidente della Sea, l'ente che gestiva i due aeroporti milanesi. Uno che contava, lo lasci dire a me. Uno bravissimo». E Larini, un altro che è scappato, lo conosceva? «Benissimo, ma il suo era un ruolo tutto interno, non politico». Ingegnere, sia sincero: lei li invidia perché sono scappati e non sono finiti in galera? «Senta, io la penso così: quando uno ha davanti a sé la cicuta e sa che deve berla, meglio chiudersi il naso e farlo subito». Si parla di condono, di rifare la legge sul finanziamento sui partiti. E un giudice come Gherardo Colombo dice: o troviamo una via d'uscita o l'inchiesta non finisce più. Lei che cosa ne pensa? Ci sarà una soluzione politica o sarà l'inchiesta ad azzerare un'intera classe dirigente? «Se è per questo, una classe diri¬ gente è già stata azzerata. Basta guardare al consiglio comunale di Milano: dei 18 consiglieri socialisti la metà si sono dimessi. Sa cosa vuol dire? La classe politica che ha accettato e praticato il sistema delle tangenti, è stata sbaragliata dalla magistratura.0 E questo è un fatto. E' chiaro però che quando un fenomeno assume queste proporzioni, non si può più soltanto considerarlo come problema giudiziario». E dunque? «Credo che una soluzione politica si dovrà trovare» Il presidente Scalfaro ha detto: chi ha sbagliato deve pagare. E' d'accordo? «Sì. Anche se si tratta di capire una cosa: se deve pagare per quello che ha fatto, o perché bisogna dare in pasto all'opinione pubblica qualche vittima eccellente». Tangentopoli ha avuto i suoi morti, suicidi. Lei conosceva Moroni? «Sì, e anche Amorese». Secondo lei che cosa li ha spinti al suicidio? «Quando una persona viene travolta da giudizi sommari, che ment'altro sono che linciaggi pubblici, non ci si può stupire se un sasso la colpisce alla testa e la uccide. In questi mesi ne hanno lanciati tanti di sassi. Hanno fatto delle pubbliche lapidazioni, hanno creato il clima per l'esecuzione della Maddalena. Certo, Maddalena può essere condannata per meretricio. Ma lapidarla è un'altra cosa». Ingegnere, ascoltandola sembra quasi che i colpevoli di Tangentopoli siano gli altri, e non gli imputati. Non le pare di esagerare? «E perché? Le ho forse detto che io sono innocente? Mai detto. Però, vede, c'è una differenza di fondo: un conto è essere colpevoli e pagare per le proprie colpe. Un altro essere messi alla gogna, al linciaggio» Lei ha dovuto cambiare le sue abitudini? Evita di andare per strada, di entrare in un ristorante, di farsi riconoscere dalla gente? «No, io giro tranquillamente per Milano, guardo gli altri negli occhi. Qualcuno sorride, magari mormora qualche parola. Ma la cosa non mi preoccupa più di tanto: io non sono in debito nei confronti di questa città». Perché? «Ho risarcito il centosessanta per cento di quello che ho preso, subendo letteralmente un'estorsione. E nessuno ha risarcito la mia dignità per il linciaggio che ho subito e per quello che ho fatto per Milano». Scusi ingegnere, lei incolpa la logica del sistema, dice che non le piace sentirsi definire «ladro». Ma molti di voi, imputati di Tangentopoli non hanno forse rubato, oltre che per il partito, anche per se stéssi? «Le dò una risposta molto semplice: crede che se avessi rubato per me stesso avrei tenuto dieci miliardi in una banca italiana? Sono l'unico pirla che tiene i suoi soldi in Italia?». Oggi lei si aspetta che l'inchiesta si estenda ad altre città? «Non me lo auguro per il bene del Paese, ma penso che le mazzette, oggi, si paghino ancora. Lo dice anche il giudice Colombo. Le tangenti non sono una regola ambrosiana, o quel che è peggio, craxiana: sono il rapporto perverso che si è generato nel Paese, in tutto il Paese, fra un mondo imprenditoriale bulgaro e il sistema politico». Perché mondo imprenditoriale «bulgaro»? «E lei come lo definirebbe? Il capitalismo ha un senso etico soltanto quando accetta il rischio di impresa. Quando si pagano le tangenti per avere gli appalti e il rischio di impresa non c'è più, siamo al livello della Bulgaria». Non c'è una Tangentopoli di rito milanese o craxiano, lei dice. Ma allora perché l'inchiesta ha colpito soprattutto i socialisti milanesi, da Tognoli a Pillitteri, fino a Craxi? «Faccio una semplice osservazione: Milano si è sviluppata grazie all'impegno dei socialisti. Il psi a Milano rappresentava il 22 per cento della città e della provincia: se Milano è cresciuta con questa rapidità lo deve anche alla task force craxiana. Se i giudici lavoravano in questa direzione, allora era possibile che arrivassero fin lì, dove sono arrivati». Craxi ha detto alla «Stampa»: mi hanno rinchiuso nella bara, ma per fortuna ho fatto i buchi e riesco ancora a respirare. Visto che tutto è partito da Chiesa, lei è uno di quelli che hanno piantato i chiodi? «Le rispondo così: se l'ho fatto, è stato in una logica assolutamente involontaria. Mi sono sempre rifiutato di prendere in man** il martello e i chiodi». Incontra ancora i compagni di prima? «No, salvo uno. Non dico il nome per non comprometterlo». E gli altri? E' lei che non li chiama o sono loro che non la cercano? «Loro, loro. Non hanno capito una cosa: il gioco è finito. Credono sia cambiata solo la musica. Sperano di salvarsi gettando a mare gli altri, Chiesa, Zaffra, Larini, Manzi. Pensano di poter continuare a vivere come se Tangentopoli fosse stata un sassolino in una scarpa». Ora che c'è un nuovo presidente, Alessandro Antoniazzl, il Trivulzio ha sfrattato il psi dalla sede di via Magenta. Il Trivulzio che caccia il psi: non è una metafora della vicenda Chiesa, quasi una rivincita di Milano? «Macché sfratto, non si faccia imbrogliare. E' semplicemente scaduta una locazione. Quanto al nuovo presidente, si figuri: di mestiere faceva il sindacalista e Borghini lo ha fatto commissario in omaggio a chissà quale professionalità... In realtà quello conosce il Trivulzio solo perché era andato lì una volta a farsi curare il culo. Ecco la competenza». Ingegnere, come si sente davanti a se stesso? «Come uno che ha accettato regole sbagliate. Ma soltanto perché quel gioco, per lui, era la vita. Oggi provo quasi sollievo. Ma anche prima ho avuto momenti durissimi, periodi in cui avrei voluto mollare tutto e mandarli tutti a cagare». Lei allora aveva potere, soldi, comando. Non era il ritratto sputato del rampantismo socialista che oggi respinge? «Senta, il socialismo milanese nel quale c'è anche Mario Chiesa - è stato certamente anche questo: prepotenza, occupazione della città, quarantenni d'assalto che intanto però realizzavano qui quel che sognavano di realizzare nel Paese. Il resto è stereotipo banale». Siamo alla fine, ingegnere. Chi è per lei oggi Di Pietro? «Un ottimo magistrato». E chi è Mario Chiesa? «Tutti pensano che sia il principale imputato di Tangentopoli, ma non è così. A Tangentopoli c'è gente molto più grossa di me. Mario Chiesa è soltanto quello che è stato preso con le mani nel sacco. E attenzione: quel sacco i giudici lo stanno ancora svuotando». Mauro Anselmo «Qualcuno, più fortunato di me, è rimasto in piedi. Non credevo, però, che i magistrati arrivassero a Craxi e Ligresti» «Non sorto stato uno yuppie, ero tra i primi 10 di Milano I miei settemila voti a Bobo sono stati un investimento» Uri ■ «Giro tranquillamente in città Ho restituito il 160% di quello che ho preso: un'estorsione Manzi contava moltissimo» «Nessuno può parlare di carcere se non l'ha sentito sulla pelle Le mazzette si pagano ancora Di Pietro è un ottimo giudice» ?* Mario Chiesa (foto grande) Sotto il giudice Gherardo Colombo Nella foto a sinistra Mario Chiesa con il giudice Antonio Di Pietro durante la prima udienza del processo Bobo Craxi (a sinistra) Qui sopra Alessandro Antoniazzl; Chiesa (a destra) con Craxi