Italia'94: bene brava. Bis?

Un traguardo storico per lo sport azzurro non-calcistico: per la prima volta conquistate più di 200 medaglie Un traguardo storico per lo sport azzurro non-calcistico: per la prima volta conquistate più di 200 medaglie Italia '94; bene, brava» Bis? Da Manu al Settebello, stagione forse irripetibile Pare che nel 1994 lo sport italiano abbia superato, per la prima volta nella sua storia, il traguardo delle 200 medaglie, fra oro, argento e bronzo, conquistate nel corso dell'anno: 201, record, contro le 197 del 1991. Il «pare» non è una riserva di fronte ai criteri di controllo del Coni, ma di fronte alla qualifica di campionato mondiale, spesso concessa a prove di limitata o comunque particolare consistenza tecnica ed anche geografica. La scherma ad esempio ha superato quest'anno le mille medaglie nella sua gloriosissima storia considerando pure quelle della categoria maestri: ma rimane sport gloriosissimo anche senza questo addendo. Premessa opportuna per dire che siamo forti davvero, e possiamo concederci persino le discussioni sulle cifre, sui metodi per metterle insieme. Prima di cercare di entrare emotivamente nell'anno sportivo che finisce, vogliamo completare quella che possiamo chiamare «espiazione critica», per non cedere cioè troppo, e subito, agli entusiasmi. Le cifre del consuntivo annuale del Coni contengono la soddisfazione per questo fatto ma anche la preccupazione per quanto si potrà fare (o non si potrà fare) nel futuro. Calano le nascite, nell'anno prossimo arriveranno 330.000 bambini, contro i 500.000 del 1971: un decremento spaventoso. La popolazione giovanile, dai 6 ai 13 anni, è prevista per il 1997, cioè dopodomani, in 4.600.000 persone, con un calo del 25% rispetto al 1991, del 35% rispetto al 1981. La pratica sportiva di massa continua a salire, si contano adesso 12 milioni di atleti «fissi», in qualche modo registrati, ai quali aggiungerne - dicono - 9 di estemporanei, persone cioè che in un anno si accostano comunque allo sport. Ma l'idea è quella di praticanti di età avanzata, e purtroppo lo dicono anche le cifre relative all'attività giovanile, nell'assoluto del calo demografico e nel relativo di una insofferenza dei nostri ragazzi verso lo sport praticato (contro una telepassione, spesso morbosa, per lo sport visto, guardato). Né le iniziative e le strutture statali (scuola) e comunali sembrano in grado di contrastare questa tendenza: anzi. Ma adesso possiamo permetterci il lusso dì guardare ai successi, e soltanto a quelli. I Giochi olimpici invernali forse più te- muti della nostra storia, quelli a priori zavorrati da Albertville 1992, vicina e gloriosa e perciò secondo molti per noi irripetibile, sono stati semplicemente trionfali. Lillehammer 1994 ha voluto dire 7 medaglie d'oro, 5 d'argento e 8 di bronzo. Manuela Di Centa è stata la donna di quei Giochi, assumendo quasi una funzione angelica di fronte a quella, diabolica per qualità pessima dell'interesse popolare, assunta dalle due pattinatrici statunitensi, la Kerrigan innocente sprangata e la Harding forse complice della sprangatura. La celebrazione dei suoi sorrisi è stata ammirata come quella, altrimenti algida, della sue vittorie, delle sue affermazioni ottenute davvero in serie, e con gioiosa facilità. Lillehammer è da ricordare, ma senza la pretesa di farne un'imposizione di successi agli azzurri prossimo venturi. Non pensiamo che Nagano 1998 possa darci le stesse medaglie: anzi, non è neppure onesto pensarlo. Non siamo così grandi, e men che mai nello sci nordico, da pretendere ogni volta il trionfo. Lillehammer è sin d'ora un impegno per la nostra capacità di ragionare, oltre che per il successore alla presidenza del Coni di Pescante, il quale magari sarà Pescante. Al di là comunque delle cifre, della conta delle medaglie, ci piace qui ricordare la perfezione dell'inserimento italiano nella coreografia anche morale di quei Giochi: davvero nei giorni norvegesi lo sport è stato chiamato a una specie di funzione sacra, di messa pànica, in una natura amatissima, rispettatis- sima, fra un pubblico che sembrava finto tanto era vero, recitante tanto era perfetto di calori, colori, entusiasmi, partecipazione. Potevamo facilmente fare, specie tenendo conto di alcune forti prerogative caratteriali, una parte gaglioffa, in quel mondo, in quella natura, magari con l'alibi della sbronza da successi; ricordiamo che nella Coppa America 1992 ci giocammo molte simpatie quando Gardini buttò in mare, dal suo Moro, un mozzicone di sigaro. A Lillehammer siamo stati sportecologica- mente perfetti, sembravamo figli di Pan l'eterno e non di Tangentopoli che cementifica gli animi e i paesaggi. Di Centa e la Compagnoni, De Zolt e i suoi compagni (e compagne) del fondo, Tomba (terza medaglia consecutiva in tre Olimpiadi: solo argento o addirittura argento?) e Vuillermin con quelli dello short-track per il primo nostro successo negli sport del ghiaccio: Lillehammer è un passaggio stupendo, un paragone tremendo. Ma l'annata italiana è stata piena di successi bene sparpagliati. Ha rivinto Chechi, re nel mondo degli anelli, hanno rivinto gli schermitori, che faranno notizia quando non vinceranno più, cioè (auguri) mai. Hanno vinto i canottieri anche se è finito l'armo degli Abbagnale e Di Capua, hanno vinto i tiratori. Ma soprattutto - e parliamo sempre di successi mondiali hanno rivinto i pallanuotisti ed i pallavolisti: i primi salvando per il nostro pubblico i campionati del mondo a Roma, i secondi isolando sempre più, dopo il successo iridato ad Atene, l'unico alloro che manca loro, quello olimpico, da conquistare ad Atlanta 1996 (è una sorta di prenotazione). I pallanuotisti di Rudic e i pallavolisti di Velasco, due commissari tecnici stranieri ai quali siamo per fortuna riusciti a dare la nostra cittadinanza, oltre che i nostri stipendi, sono adesso ancorati anche loro alla necessità di vincere, alla perversione della notizia fatta ormai dal non successo. Una pesante condanna, che espiano invidiatissimi dal mondo. E riuscendo con i loro uomini a giocare sempre meglio, e in maniera sempre nuova, in due sport che soltanto i calciomani spinti vogliono ancorati ad una ripetitività, presto o tardi ammosciante, di azioni, di gesti, di tattiche. Ma non è mica finito qui l'anno grande, oltre che grosso e grasso, del nostro sport. C'è il titolo motociclistico di Biaggi, c'è finalmente il ritorno della Ferrari alla vittoria (peccato che si sia trattato di una sola volta), ci sono gli eroismi sanguinanti del pugile Rosi, ci sono soprattutto i due successi europei dell'atletica leggera, Lambruschini sui 3000 siepi, con il gesto bello di Panetta che dopo una caduta lo ha sollevato e rilanciato, Benvenuti sugli 800, con ancora maggiore validità tecnica, agonistica e, come dire?, futuristica, per i Mondiali di Goteborg, i Giochi di Atlanta. E c'è infine il ciclismo, senza Mondiale grosso ma con l'eternità quasi inquietante di Moser, le classiche di primavera (Furlan, Bugno, Argentini e le promesse di Giro e Tour (Pantani oltre a Chiappucci). E c'è - ma siamo in una stagione anomala, quella dello sci a cavaillo fra due anni - il Tomba immane di questi giorni: che è quello dell'8788, gerovital per lui e per noi. Gian Paolo Ormezzano I successi olimpici a Lillehammer sono stati il trampolino di lancio per molte esaltanti imprese Ma è lecito chiedersi come le avremmo vissute se Baggio e soci avessero vinto il Mondiale Da sinistra gli azzurri del volley e della pallanuoto vincitori dei titoli iridati; a destra Lambruschini cade nella finale europea dei 3000 siepi ma Ranetta lo aiuterà a rialzarsi e a vincere; in basso; Manuela Di Centa e Biaggi

Luoghi citati: America, Atene, Atlanta, Italia, Pan, Roma