Le furie di Grosz diavolo sopra Berlino

Il grande dissacratore celebrato dalla città che l'aveva ripudiato: mostra-evento con tutti i quadri, i disegni, gli appunti grafici Il grande dissacratore celebrato dalla città che l'aveva ripudiato: mostra-evento con tutti i quadri, i disegni, gli appunti grafici Le furie di Grosz diavolo sopra Berlino BERLINO DAL NOSTRO INVIATO «Georg Grosz è ritornato», annunciano i giornali con l'enfasi che di solito nasconde incredulità turbata e irrequieta. Come se Berlino e la Germania avessero ancora da temere; come se la gente, qui, non gli avesse ancora perdonato. Come se l'opera omnia di un pittore scomodo e rovente - cinquecento quadri e disegni, oltre a duecento quaderni d'appunti grafici, raccolti per la prima volta alla «Neu Nationalgalerie» conservasse, ancora, la violenza del ripudio. Eppure «Tutto Grosz, Berlino - New York», in mostra fino al 17 aprile, non è soltanto il racconto grafico di una società in sfacelo, la caricatura ossessiva e l'indagine visuale di un Paese affacciato al baratro e al nazismo, dalle tensioni del primo dopoguerra allo scompiglio della Repubblica di Weimar. E' anche il tentativo - il primo - di riportare Grosz nell'alveo delle sue contraddizioni, dalle prove di ragazzo all'esilio americano nel 1933 fino alla morte, avvenuta d'improvviso pochi giorni dopo il ritorno a Berlino, nel '59. Tessendo un filo, scandendo i tempi: quelli affidati a Futurismo e Impressionismo o alle consonanze con il movimento Dada - del disgusto esasperato, della collera furiosa per la «grossolanità tedesca», per la sua aggressività insaziabile. E quelli della ribellione sedata dalla lontananza, della patria soltanto rappresentata e «figurata», delle polemiche contro la modernità nell'arte, contro Picasso «pittore fiacco», contro le avanguardie ripudiate. I ritardi nell'organizzazione non hanno consentito di cele- brare per tempo - l'anno scorso - il centenario della nascita di uno dei pochissimi «artisti berlinesi». Ma l'esposizione della «Neu Nationalgalerie» conserva la solennità degli eventi destinati a segnare comunque uno spartiacque, nella storia culturale della città tedesca. Perché Grosz «è» Berlino, anche se a quarant'anni incontrerà New York e fingerà di preferirla. Grosz racconta soprattutto le strade e la gente di Berlino: nella ripetizione ossessiva di volti e corpi deformati, nelle caricature spietate di militari e mercanti d'armi, di sfruttatori, prostitute e piccoloborghesi d'ogni mestiere e vocazione, affiora prima di tutto una città in tumulto, ferita, ai margini del buio. Lo conferma una mostra parallela, allestita proprio al centro dell'esposizione principale e affidata a fotografie d'epoca e giornali, a manifesti cinematografici e registrazioni originali: ci sono il caffè Kranzler sulla Unter den Linden e l'Eldorado, il locale riservato ai travestiti; ci sono il pugile Max Schmeling e Josephine Baker, le manifestazioni spartachiste e i raduni del «Kpd», il partito comunista al quale Grosz aderì dal '19 al '23; ci sono i morti per le strade e le «Freikorper- truppen» sull'Alexanderplatz, Fritz Lang e la pubblicità per il dottor Mabuse, Metropolis e Marlene, soldati ed elmi, decine di elmi in successione. Tutto questo è la Berlino del primo dopoguerra, tutto questo è l'avventura umana e artistica di Grosz pittore, illustratore, grafico, caricaturista, collagista, tipografo, fotografo, bozzettista teatrale e cinematografico. Tutto questo e soprattutto questo: quando, superata la metà dell'esposizione berlinese, si varca una linea nera tracciata a terra - di qua Berlino, di là New York - vien da chiedersi cos'è rimasto, dov'è nascosto il pittore che, «giorno per giorno», trovava «alimento rovente all'odio per la Germania» muovendosi nelle strade della sua città natale. Vien da chiedersi dov'è finito il pole¬ mista esasperato che, giovanissimo, esibì la «difficoltà di essere tedesco» adattando il cognome originario - Gross - a cadenze più vicine alla lingua inglese. Vien da chiedersi dov'è rimasto il sarcasmo gelido e mordace di chi - dipingendo i vizi di una «società di ciechi» - benediceva «la fortuna di non essere tedesco». Dov'è andato l'inventore di uno stile drammatico e grottesco che era, soprattutto, l'esasperazione di un «tipo nazionale». All'improvviso, o quasi, la mostra berlinese rivela che Georg Ehrenfried Grosz era capace d'altre trasgressioni. All'improvviso o quasi affiora un pittore che si preoccupa, certo, di esprimere paura e astio per la patria ormai caduta nella mani del nazismo, come mostrano le ricorrenti spettrali rappresentazioni di Adolf Hitler. Ma che bada soprattutto ad altro. A mettersi in scena, a rappresentarsi, a ricoprire un ruolo: quando esorta a «disprezzare l'arte moderna», per esempio, e confessa di essersi procurato «i fiammiferi con i quali poter dar fuoco, all'occasione, a un museo». O quando come testimoniano documenti esposti per la prima volta a Berlino - cerca di seminare sconcerto fra gli entusiasti d'Oltreoceano: ricevendo un premio dell'«American Academy of Arts» - una medaglia d'oro per l'attività grafica - sostituì i ringraziamenti con «una specie di danza di guerra indiana», lasciando galleristi amici in lacrime e dando l'impressione di «essere un uomo in preda alla pazzia». Man mano che, nell'esilio americano, montavano la sua polemica e il sarcasmo verso «i moderni», si diffondeva la convinzione che «Grosz tornava ad essere il piccolo-borghese che forse era sempre stato». Ma l'autore di quadri devastanti come Metropolis, Sonnenfinsternis (l'eclisse), e Stuetzen der Gesellschaft, i sostegni della società, non sembrava preoccuparsene: mentre confezionava oscenità poetiche e grafiche (ospitate con discrezione alla mostra di Berlino), amava ricordare che i migliori acquirenti dei suoi quadri, nella Germania prenazista, erano state proprio le vittime della sua violenza grafica e della sua satira sociale, uomini rappresentati volentieri col cranio dimezzato e riempito di escrementi, o addirittura senza testa. «Cattivi e potenti», ricordava Grosz, ma soprattutto «vittime: della propria stupidità». Emanuele Novazio II disgusto per la «grossolanità tedesca», l'esilio a New York, il disprezzo per Picasso L'abbraccio di due amanti nell'immagine centrale; la volgarità di un «Interno familiare» nel disegno qui a sinistra. Il centenario della nascita di Georg Grosz ricorreva l'anno scorso Il disgusto esasperato, la collera furiosa di Georg Grosz per la «grossolanità tedesca» emerge anche da questo disegno a destra