Nei lager di Stalin e della Gestapo

discussione. I comunisti tedeschi «venduti» a Hitler dal patto Molotov-Ribbentrop: troppi silenzi su quel dramma discussione. I comunisti tedeschi «venduti» a Hitler dal patto Molotov-Ribbentrop: troppi silenzi su quel dramma Nei lager di Stalin e della Gestapo Due regimi totalitari, una sola terribile testimonianza BORBERTO Bobbio e Ernst Nolte affrontano da punti di vista diametralmente diversi il problema dei rapporti complementari e speculari tra fascismo (o nazismo) e comunismo. L'uno e l'altro mi sembrano confermare la tesi secondo cui le due grandi ideologie totalitarie del secolo furono contemporaneamente nemici irriducibili e fratelli gemelli, prodotti diversi, ma non totalmente dissimili, di uno stesso problema economico e sociale: l'impetuoso ingresso delle masse nelle società contemporanee. Considerato in questa luce il periodo più affascinante, nella storia del loro irriducibile contrasto, è quello in cui strinsero un patto di amicizia. Impenitente e bugiarda fino all'ultimo respiro l'Unione Sovietica rifiutò sempre di ammettere l'esistenza dei protocolli segreti che Molotov e Ribbentrop avevano firmato a Mosca nell'agosto del 1939. Gli storici di regime sostenevano che i documenti prodotti dai ricercatori occidentali erano copie fotografiche, quindi sospette di falso. Da questa parte del sipario di ferro nessuno aveva dubbi, ma gli studiosi comunisti o simpatizzanti sostennero sino alla fine degli Anni Ottanta che Stalin fece in quelle circostanze l'unica mossa politicamente ragionevole: concluse un patto di amicizia con l'aggressore perché non era ancora pronto a sfidarne la tracotanza e perché riteneva comunque utile «salvare» il Baltico e una parte della Polonia. Trascuravano di osservare che l'impreparazione delle forze armate sovietiche era il risultato delle grandi purghe scatenate dal «meraviglioso georgiano» dopo la morte di Kirov, che l'arresto di Tuchachevskij nel 1937 aveva sconvolto l'organizzazione dell'Armata Rossa, che la guerra alla Finlandia e l'annessione delle Repubbliche baltiche furono atti di violenza internazionale. Dimenticavano che l'Urss, tra la fine 1939 e la primavera del 1941, dette con le proprie materie prime uno straordinario contributo allo sforzo bellico della Germania. E passavano sotto silenzio, infine, un episodio ben conosciuto, ma sistematicamente censurato daH'intelligencija di sinistra: la consegna alla Germania, nel 1940, degli antifascisti tedeschi che stavano scontando pene detentive nei lager sovietici dopo le purghe del 1937. La storia di quella vicenda è in un libro - Prigioniera di Stalin e Hitler - apparso a Stoccolma nel 1948, ma pubblicato in Italia, dal Mulino, soltanto nelle scorse settimane. L'autore è Margarete BuberNeumann. Si chiamava, in realtà, Thùring ed era nata a Potsdam nel 1901, da famiglia prussiana, ma volle sempre essere conosciuta con il cognome dei due uomini a cui aveva legato la sua vita: Rafael Buber, figlio di uno dei maggiori filosofi ebraici del secolo, e Heinz Neumann, dirigente del partito comunista tedesco, deputato al Reichstag, agente dell'Internazionale in Spagna fino alla fine del 1933. Quando Margarete e Heinz arrivarono a Mosca nel 1935, lui aveva fama di piantagrane e dissidente perché aveva spesso criticato la pessima politica tedesca di Stalin all'inizio degli Anni Trenta. Ma ebbero una stanza al Lux - il «grand hotel» della nomenklatura comunista internazionale sulla via Gor'kij e un impiego come traduttori presso una casa editrice. La tagliola scattò nell'aprile del 1937 quando gli agenti dell'Nkvd irruppero nella loro stanza, la misero a soqquadro e arrestarono Heinz sotto l'accusa di trotzkismo. Come in Requiem - il grande poema di Anna Achmatova sulle purghe staliniane - anche Margarete si mise in coda davanti alle prigioni di Mosca per trovare traccia del marito. Lo scovò finalmente alla Lubjanka, ma non potè parlargli, e di lui, da quel momento, non seppe più nulla. Qualche mese dopo, agli inizi del 1938, fu il suo turno. Venne arrestata, gettata in una cella dove 125 donne giacevano l'una accanto all'altra su un enorme tavolaccio, processata sommariamente per attività antisovietiche, condannata a cinque anni di lager e rovesciata dal treno, con un folto «lotto» di prigionieri comuni nel campo di Karaganda in Kazakistan. Due anni dopo, improvvisamente, una inattesa promessa di libertà. Con altre detenute tedesche fu ripulita, rivestita, nutrita e cortesemente pregata di accomodarsi su un treno che stava per partire verso Occidente. Le speranze di libertà svanirono a Brest Litovsk quando la piccola legione degli antifascisti tedeschi si accorse che stava per passare dalle mani della Nkvd a quelle del Gestapo. Come in un brutto sogno Margarete rifece in tedesco la storia russa degli anni precedenti: un carcere a Lublino, un altro carcere a Berlino, un interrogatorio sommario e un nuovo viaggio in treno sino alla destinazione finale. Fu così che nell'agosto del 1940 Margarete Buber-Neumann varcò la soglia del lager di Ravensbriick. La prima impressione fu ottima. Il piazzale «era delimitato da strisce di erba ben rasata alternate ad aiuole nelle quali spiccavano le foglie rossastre della salvia. (...) All'angolo della strada si intravedeva una diste¬ sa di aiuole fiorite che sembravano tracciate con il righello». Fra le molte virtù del libro questa è la più sconcertante. Grazie alla doppia prigionia di Margarete noi assistiamo contemporaneamente, come in un panopticon, al funzionamento dei due maggiori sistemi repressivi del secolo. In Unione Sovietica il mondo della polizia e dei lager è brutale, sciatto, sporco, disordinato, arbitrario e crudele: vestiti informi, neve e fango, topi, scarafaggi, pidocchi, boglioli e latrine maleodoranti. In Germania lo stesso mondo è ordinato, meticoloso, burocraticamente impeccabile: uniformi e corredo per i detenuti, armadietti, infermerie, regolamenti. Da una parte e dall'altra, tuttavia, la vita umana non costa nulla. Per sfoltire i ranghi dei prigionieri i comandanti dei campi sovietici e tedeschi manovrano egualmente, con suprema indifferenza, l'arma della morte. Ma in Urss si muore d'incuria, di fame e di freddo mentre in Germania si muore di esecuzioni capitali, solennemente celebrate sul grande piazzale del campo, di esperimenti scientifici e di camere a gas. I due sistemi sono straordinariamente simili anche per altri versi. Come osserva Viktor Zaslavsky nella sua bella prefazione, sia nei lager sovietici che in quelli tedeschi vige l'abitudine di mettere insieme, nelle stesse celle e nelle stesse baracche, i «politici» e i «comuni». A Karaganda come a Ravensbriick gli «asociali» impongono la loro legge sotto gli occhi distratti o divertiti dei secondini. A Mosca, prima di partire per il Kazakistan, l'autore incontra una vecchia socialista rivolu¬ zionaria, veterana dei campi di concentramento sovietici, ma forte come una quercia e dura come un vecchio soldato. «Anche tu - disse a Margarete - sei una di quelle che salverà la pelle...». Aveva ragione. Né i sovietici né i nazisti riuscirono a sconfiggere il suo ottimismo e la sua volontà di sopravvivere. Fra le pagine più belle del libro ricordo quelle in cui la BuberNeumann incontra un'altra donna straordinaria. E' Milena Jesenkà, la «fidanzata» di Kafka, una delle più intelligenti giornaliste cecoslovacche degli Anni Venti e Trenta. Fu lei che convinse Margarete a raccontare la storia della sua vita e a comporre nella sua mente il libro che sarebbe apparso a Stoccolma nel 1948. Milena morì nel 1945, qualche mese prima della libertà. Margarete sopravvisse a due campi di concentramento e, con altrettanto coraggio, alle calunniose critiche con cui la sinistra ortodossa accolse la storia delle sue «disavventure». E' morta nel 1989, mentre sull'epoca di cui era stata vittima e protagonista calava finalmente il sipario. Sergio Romano / ricordi della Buber-Neumann: pur nella persecuzione un orgoglio «nazionale» Qui sotto, un lager tedesco. A destra, la copertina del libro di Margarete Buber-Neumann «Prigioniera di Stalin e di Hitler» Qui sotto, un lager tedesco. A destra, la copertina del libro di Margarete Buber-Neumann «Prigioniera di Stalin e di Hitler»