«Sentivo i colpi e tremavo»

«Sentivo i colpi e tremavo» «Sentivo i colpi e tremavo» Gli ©staggi raccontano l'incubò più lungo tur L'AEREO DELLA MORTE MARSIGLIA DAL NOSTRO INVIATO L'incubo, dice Abassi, «è rimasto l'incubo». L'Airbus è ancora là, vicino all'uscita numero uno, circondato dai camion, dalle jeep, dagli uomini. Sembrano formiche alla scoperta di un mostro. E' lì dentro, quell'incubo, una memoria che s'incolla alle cose, agli oggetti, agli occhi. «Io li sentivo parlare», dice Abassi. «Volevano saitaro in aria sopra Parigi». E allora leva lo sguardo. Adesso è finita, no? Quattro terroristi nei giorni di Natale, e 172 prigionieri da Algeri a Marsiglia su un aereo con 24 candelotti di dinamite piazzati sotto due sedie, una nella cabina di comando e l'altra nella pancia. E' finita bene, davvero bene. Anche se Abassi scuote la testa: «Oh, per noi non ò ancora finita. Mio Dio, non ancora». Ieri sera, Kabyle Ferhat puntava l'indice nel buio, oltre questa vetrata: «Il mio posto era là davanti. 4A, prima classe». In testa all'aereo, a due passi dalla cabina di comando. Faccia magra, capelli ricci, e i baffoni sotto un naso a becco. Come si fa a dimenticare? «Quando hanno preso il vietnamita gli hanno detto tu vieni con noi. E quello poveretto non voleva alzarsi, e allora uno gli ha messo la mano sulla spalla e gli ha detto su, coraggio. L'hanno portato sulla passerella, e hanno aspettato pochi secondi. Poi, bum, alla testa. Così. Quello con i capelli lunghi ha tirato, è stato lui». Kabyle ha visto tutto, «okay?». 4A, prima classe, era lì davanti. Abassi ha gli occhi di fuori e ci passa la mano sopra, «Io sentivo», dice, e si stropiccia la fronte: «Sentivamo i colpi, e allora qualcuno tremava. Normale, no?». Ecco perché non è ancora finita. Normale, sì: «Io questa notte non ho dormito. L'ho passata con i miei incubi». Lui e i suoi tre fratelli sono entrati nella pancia dell'Airbus, quasi per ultimi. Doveva ancora sedersi, Abassi. «Stavo per prendere posto, quando quattro uomini con le divise da stewards mi sono apparsi davanti. Avevano delle mitragliette e dello granate: niente paura, dicevano, siamo della polizia, dobbiamo fare dei controlli. Hanno chiuso le porte dell'aereo e poi hanno chiesto i documenti ai passeggeri seduti. Il personale non capiva niente, si guardavano fra loro, che succede, che succede? Una hostess mi chiedeva di tradurre: che vogliono? Ho capito subito che non era normale quello che stava capitando, ma loro all'inizio non erano agitati, sembravano poliziotti. Poi a un certo punto, all'improvviso, si sono messi a gridare Allah è grande, Allah è grande. Io ho pensato ai miei bambini rimasti in Francia e ho avuto paura. Adesso era chiaro: erano terroristi». Dopo un po', Kabyle Ferhat ha sentito sparare dietro di lui. «Io non mi sono girato subito. Ho sentito il botto e mi si è gelato il sangue. Avevano ucciso il commissario di polizia. C'era quello con i capelli lunghi vicino a quel corpo steso per terra. Era lui il killer. Il capo invece era quello quasi pelato, giovane anche lui. Le donne hanno cominciato a gridare». Ricorda, Abassi? «Sì, ricordo». Abassi fa l'operaio a Roubaix, assieme ai suoi tre fratelli. Era andato ad Algeri a trovare la famiglia, stava rien¬ trando in Francia: «Non ce la faremo, mi dicevo. Tre di loro sono entrati nella cabina di comando, il quarto è rimasto a sorvegliarci con il suo kalashnikov. Non si muoveva nessuno, eravamo come paralizzati. Mi ricordo che ci facevano male le gambe, ma bisognava restare seduti. All'inizio, quando qualcuno voleva alzarsi, uno dei terroristi lo perquisiva prima di lasciarlo andare alla toilette. Poi, con il passare delle ore, la loro attenzione è un po' diminuita. Quando i loro negoziati andavano bene, ci lasciavano alzare anche solo per parlare fra di noi. Se invece qualcosa non andava, diventavano nervosi, urlavano e noi dovevamo restare immobili». Fra loro, i quattro si chiamavano così: Sismodine, Djamel, Fodil e Slimane. Quattro soprannomi. Il capo dovrebbe essere Abdallah Yahia, killer del Già, descritto ad Algeri come «l'autore di alcuni degli attentati più feroci compiuti dai terroristi islamici». Il suo per ora sarebbe l'unico nome noto agli inquirenti. «Con noi non erano cattivi», racconta Nadji. «Uno di loro a un certo punto s'è tolto la cravatta e voleva regalarla a uno dei passeggeri. E mi ricordo che quello non ha voluto saperne, anche se l'altro insisteva: dai, prendila, se ti piace». E Kabyle Ferhat: «Quando ci parlavano, non alzavano mai la voce, cercavano sempre di trattarci bene. Urlavano con le autorità, durante i negoziati. Però, noi l'avevamo capito che da un momento all'altro avrebbero potuto farci fuori tutti, senza problemi». Così, la sera di Natale, visto che non hanno ancora ottenuto il nulla osta per lasciare Algeri, prendono Yannick Beugnet e gli sparano in testa. Buttano il suo corpo sulla pista e chiamano il vecchio Abassi nella cabina di co¬ mando: «Spiegagli bene che cosa devono fare, digli che non devono giocare con la vostra vita». Abassi afferra il microfono, gli trema la voce e ripete come un automa: «Non è giusto che giocate con le nostre vite. Noi siamo due giorni che viviamo nel terrore». 11 capo del commando gli strappa il microfono di mano: «Un ostaggio ogni 25 minuti se l'aereo non parte. Chiaro? Ne uccidiamo uno ogni 25 minuti». Così, alle due del lunedì di Santo Stefano, l'Airbus A300 decolla da Algeri. Destinazione Marsiglia, perché bisogna fare il pieno di carburante per arrivare a Parigi. Scendono a Marignane che sono le 3,33. Kabyle Ferhat è uno dei pochi che tira un grosso sospiro di sollievo. E' un cantante arabo famoso, e l'avevano adocchiato. «Mi passavano vicino un mucchio di volte e mi lanciavano sguardi insistenti. Alle 11 e 27 di ieri mi hanno fermato il cuore, perché mi hanno preso e mi hanno fatto uscire sulla passerella, per spararmi. Poi hanno cambiato idea, dicevano che forse potevo essere una moneta di scambio importante. Uno ha detto: lo mandiamo a negoziare al posto nostro». In Francia, Kabyle Ferhat vale come gli altri. Vite appese. Alle sette del mattino, comincia il dialogo dall'aereo con la torre di controllo. Dopo il comandante Bernard Dhellemme, la voce giovane di uno dei terroristi: «Devi mandarci un camion di acqua potabile/ Sbrigati, non si scherza qui, parlo sul serio. Sbrigati. Tutto quello che ti chiederemo devi farlo veloce. E' tutto». Torre di controllo: «Sì, sicuramente, signore. Nessun problema. Il camion partirà subito. Noi non siamo qui per scherzare, ma per servirvi». Comincia così, un dialogo che dura 10 ore, fra una pausa e l'altra. E minacce terribili. Capo dei terroristi alla torre: «Mi senti bene? Mi ascolti? Secondo me, tu stai lavorando perché qui salti in aria tutto. Mi sono spiegato?». I quattro avevano già piazzato i candelotti di dinamite in due punti dell'aereo. L'hanno raccontato i passeggeri, l'ha confermato il ministro dell'Interno, Charles Pasqua: «Era un'azione da kamikaze. Sapevano di morire, volevano farlo assieme a più gente possibile». E Nadji: «Li abbiamo visti preparare le bombe con i candelotti di dinamite e piazzarli legati a una sveglia sotto una poltrona. Poi si sono messi a pregare, a leggere ad alta voce i brani del Corano. Hanno cambiato umore, prima scherzavano con noi, persino, ci davano da bere, ci ripetevano che ci avrebbero li- berati una volta arrivati a Parigi». Abassi: «Quando li ho visti leggere il Corano, ho capito che era finita». Sono gli attimi che precedono l'assalto. Prima, due colpi di fucile contro la torre di controllo. Poi, «tutto è andato così veloce». Per loro, per quelli che avevano già vissuto due giorni d'incubo. Non così, per gli altri: «Per me, è stato un tempo eterno», dice Denis Favier, il comandante delle Teste di Cuoio. «Gli uomini neri sono entrati e ci hanno gridato di gettarci a terra. Sono sceso dalla scala di dietro e ho guardato attorno a me. C'erano i miei fratelli e ho ringraziato Dio». Allora, è riemersa la voce di Bernard alla torre di controllo. «Sono tutti morti». Una voce calma, piana. Volute di fumo attorno all'aereo, e un silenzio strano. «Pronto? Comandante?» «Sono tutti morti», disse Bernard. «I terroristi». Poi scesero tutti. E alla fine, anche Bernard Dhellemme, il comandante. Pierangelo Sapegno «Il vietnamita non voleva muoversi dal sedile Lo hanno preso e gli hanno sparato in testa» «Leggevano il Corano Si preparavano a saltare in aria assieme a noi» Un ostaggio riabbraccia la moglie. Nella foto grande, Mitterrand si congratula con un Gign ferito nel blitz