DIARIO DI MOSCA di Giulietto Chiesa

Il capo del Cremlino ferma i bombardieri ma elogia l'azione dell'esercito F DIARIO DI MOSCA E caduta la testa dell'eroe di Kabul EL generale Boris Gromov m'è rimasto un ricordo netto e chiaro di quel 15 febbraio 1989 quando passò con l'ultima colonna blindata sovietica sul ponte di Termez, alla frontiera tra Afghanistan e Uzbekistan, sui flutti maestosi dell'Amu Daria. Se ne stava impettito sul blindato, con il sorriso stampato sulle labbra, che non indovinavi se era di sollievo o nutrito dell'orgoglio di avere comunque fatto il proprio dovere. La bandiera rossa con falce e martello, issata sulla torretta, sbattuta dal vento teso della pianura, a tratti gli sferzava la testa scompigliandogli il ciuffo sulla fronte. Era toccato a lui il compito ingrato di guidare una ritirata e l'aveva fatto al meglio, evitando che altri suoi soldati morissero - e sarebbe stata una beffa terribile - in quegli ultimi giorni, lungo quegli ultimi chilometri. I mujaheddin vincitori, del resto, lasciarono fare. C'era stato un accordo, forse tacito, forse remunerato, perché le colonne attraversassero indenni il passo di Salang. Fu rispettato. Gromov fece carriera, salì fino al rango di vice ministro della Difesa. E oggi, che cade l'anniversario, il quindicesimo dell'inizio dell'avventura afghana, per ironia della sorte, cade anche il generale Boris Gromov, destituito con decreto presidenziale per essersi opposto alla guerra cecena. Si dev'essere ricordato di quell'esperienza. E, con un insolito atto d'insubordinazione, aveva denunciato, insieme, il «tragico errore» e «l'inganno». Non era solo. Anche altri generali, altri vice-ministri della Difesa come Kondratev e Mironov, hanno subito oggi la stessa sorte, per gli stessi motivi. Anche uno che era stato mandato sul campo di battaglia, come il generale Babicev, ha commesso un atto d'insubordinazione e ha fermato la sua colonna corazzata davanti a una folla di donne piangenti. LHanno pensato che non si doveva bombardare la propria gente, che non si sarebbe potuto vincere in ogni caso, che sarebbe stata di nuovo una tragedia. Forse loro sanno meglio di chiunque altro che questo esercito russo non è ih condizione di combattere nessuna guerra, né grande, né piccola. Non sono mai stati vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro. Ma non c'è spazio per loro in questi tempi oscuri. Paradosso che solo in Russia poteva accadere: sono i generali che non vogliono fare la guerra. Anche se altri generali questa guerra l'hanno voluta, a tutti i costi. Ho telefonato più volte in questi giorni, al generale Gromov. Se ne stava silenzioso dopo la prima, e unica, dichiarazione pubblica. Aspettava la tempesta. Ogni volta il suo portavoce, Serghei Bogdanov, rispondeva nello stesso modo: «Non è ancora il momento, non è ancora il momento. Ma parlerà». E molti russi aspettavano che quella parte dell'esercito, che è grande, si facesse sentire. Invece tocca loro andarsene, senza neanche un grazie, con le loro medaglie inutili. Hanno perduto di nuovo, questa volta in una battaglia condotta non a colpi di cannone ma di pugni sul tavolo e di intrighi nei palazzi del potere. Forse loro sanno che la guerra di Cecenia finirà per fare a pezzi quell'esercito in cui hanno servito e creduto, ma ormai ridotto a un insieme di bande di ventura al servizio di signorotti sempre più simili a feudatari, eredi e proprietari di province che non hanno più un centro cui guardare. Giulietto Chiesa u

Persone citate: Boris Gromov, Gromov, Mironov, Serghei Bogdanov

Luoghi citati: Afghanistan, Cecenia, Kabul, Mosca, Russia, Uzbekistan