Fini i muscoli di un veterano di Filippo Ceccarelli

«Sono sotto esame di democrazia La mia opposizione sarà britannica» Fini, i muscoli di un veterano Il fido alleato offusca il berlusconismo lHllUlll*AaiH DELLA CRISI IROMA muscoli di Fini, quegli stessi muscoli che ha evocato nel suo discorso parlamentare, sono in realtà soprattutto muscoli facciali. Un fascio - appunto - di nervi, una quantità di invisibili contrazioni sottocutanee che garantiscono la massima indifferenza agli urti estemi. Lo sguardo, perfino distratto, coopera al risultato. Così, mentre dieci gradini dietro di lui sta accadendo il finimondo (cartelli, malori, commossi e strepiti), il leader di An se ne sta seduto con le mani giunte, come se pregasse, e guarda fisso davanti a sé. «Buoni, state buoni»: in questo modo, tra Alberto Sordi e San Filippo Neri, si rivolge più tardi ad altri rumorosi colleghi. Comprensivo c sbrigativo ad un tempo, ma di nuovo soprattutto impassibile. E tanto più impassibile, in generale, quanto più il contesto intorno a lui si fa emotivamente esagitato, o sentimentalmente caloroso. A gambe larghe, perciò, nella calca dei giornalisti, col portavoce Sottile che lo protegge. Oppure quando, lungo un corridoio, saluta cavallerescamente il rifondatore Giadresco («Ci conosciamo da tante legislature»), o quando, dietro una porta a vetri, riceve un dono con fiocco dal sottosegretario Trantino. E forse è proprio questa specie di ascetica freddezza a permettergli di affrontare, fuori dell'aula, argomenti come Scalfaro, «che farà quel che deve fare», D'Alema, «che ha capito per primo», Bossi, «che ha messo in moto un meccanismo autodistruttivo» e «la partita a rischio per tutti noi», con il pacchettino di Trantino in mano, come se fosse un prolungamento del proprio corpo, quindi fino a renderlo invisibile. Sono le risorse, anche estetiche, degli animali politici a sangue freddo. Li si riconosce nel Transatlantico per l'economia elegante dei loro movimenti, e in aula perché, sia pure tenendo talvolta in mano un vano foglietto-feticcio, parlano a braccio. In questo, Gianfranco Fini è davvero l'erede di un'alta scuola parlamentare che potrebbe partire dai ragionamenti classicheggianti di Togliatti per arrivare ai sobri virtuosismi oratori di Giorgio Almirante. Ma a parte toni e ritmi, l'efficacia del discorso di Fini, con quell'onesto riconoscimento di essere «sotto esame di democrazia», l'artificio dei consigli a D'Alema e Buttiglione di non fidarsi di Rossi, la promessa di eventuale «opposizione britannica», quell'accenno minacciosetto ai muscoli (non facciali) della destra appena appena riequilibrato da quell'altra affermazione sui «nemici» che debbono diventare «avversari», il carattere, insomma, il segno, la cifra dell'intervento di Fini si faceva notare - e in qualche modo anche valutare - proprio a confronto con l'indignata perorazione berlusconia- na. Come riscontro minimale qui vale giusto la pena di osservare come il presidente del Consiglio dimissionario e il suo principale alleato abbiano reagito alle interruzioni fuori programma del vecchio portavoce di Bossi, Gigi Rossi. Livido il primo, quasi paradossalmente paterno - considerato che l'interruttore leghista ha superato da un bel pezzo l'ottantina - Fini: «Lasciamolo sfogare per l'ultima volta». Poi, dando un saggio di come si insulta una persona senza essere insolente: «Nel senso che non sarà più eletto». Forse solo l'inevitabile parago¬ ne con il discorso di Berlusconi aiuta infatti a comprendere quanto la leadership di An sia più tradizionale e, almeno a occhio, meno volatile e ansiogena di quella di Forza Italia. Così come, d'altra parte, serve a spiegare anche il particolarissimo fascino esercitato da Fini su milioni, ormai, di elettori ex democristiani altrimenti diffidenti e spaventati di fronte a Sgarbi e Meluzzi. Esagerata, certo, la sintesi poetica di Benni: «Il camerata Fini è/ l'Andreotti del domani/ Storace è Bernabei/ Tatarella è Forlani». Resta la sensazione che senza troppe fregole mediatiche o espe¬ dienti spettacolari, anche a costo di risultare banale, a suo* modo Fini riporta in auge la politica del buon tempo antico, quella che risponde a logiche c regole certo, quasi scientifiche, interessi, insediamenti territoriali. E così, pure senza volerlo e forse senza neanche saperlo, finisco por mettere il berlusconismo tra parentesi. Naturalmente tutto questo lui non può ammetterlo. Ma di nuovo anche qui l'impressiono e che da domani non ci sarà nemmeno la più piccola e residualo tentazione di relegarlo al ruolo di gregario. Non che lui, per la verità, se ne sia mai fatto un gran cruccio. Lungo il Transatlantico, anzi, prima di prendere la parola in aula, con questa brusca formulazione e senza nemmeno formarsi, rispondeva a chi aveva chiesto appunto come si sentisse «secondo dopo Berlusconi»: «E' un problema che non ho avuto neanche a nove anni». Né valeva, a quel punto, rivendicare lo studio di I sue reconti e accuratissime bio- grafie ufficiali secondo cui il bimbo Fini dimostrava fin da allora, sui campetti di calcio, una precoce c spiccatissima vocazione al comando (unico e non ('.rogano): «Questo è scritto, quindi non è dotto che sia vero». Detto con sorrisetto. Solo un po' artificiale. Benché temperata dall'inconfondibile acconto bolognese [Alleaiisii nassionale, fertnessa, seriamente, elessiuni), commercializzata forse più dol dovuto dai gadget del postal-market missino del dottor Jannarilli e umanizzata dagli spot dol senatore-regista Squitieri c da corti manifesti con la giacca portata sportivamente sulla spalla, la fulminante imperturbabilità di Fini è una virtù politica che no fa una creatura molto rara e particolare. So non altro porche la mosso di riconoscimenti via via ottenuti, da Gorbaciov a Giuseppe Do Rita, tra i primi a valutare «splendidamente dal punto di vista tattico» l'esperienza di An, non gli hanno finora mai impedito di perdere un'altra risorsa, anch'essa quasi più temperamentale che politica: la coscienza dei propri limiti. Fini lo ricordava l'altro giorno, sempre alla Camera, raccontando di essere un appassionato scacchista: «Vedete, in questo gioco io riesco a immaginare fino alla quarta mossa dell'avversario. Ma deve essere un avversario logico. Se l'avversario ha più fantasia di me, e quindi muove secondo uno schema che io, con la mia mancanza di fantasia, non ho previsto, sono fregalo». E lo diceva con l'aria sincera, il bavero del cappotto rialzato, immaginando con esattezza quel che ieri è puntualmente avvenuto a Montecitorio. Filippo Ceccarelli «Sono sotto esame di democrazia La mia opposizione sarà britannica» Da sinistra: Fini, Gorbnciov e San Filippo Neri