Eltsin lancia la campagna di Cecenia

Dudaev respinge l'ultimatum. Tank sparano su una colonna di profughi: nove morti Dudaev respinge l'ultimatum. Tank sparano su una colonna di profughi: nove morti Eltsin lancia la campagna di Cecenia Da mezzanotte l'esercito russo marcia sulla capitale MOSCA DAL NOSTRO INVIATO E' la guerra, dopo una tenue speranza. Dalla mezzanotte le truppe russe hanno avuto il via libera per l'assalto alla capitale cecena. La dilazione di 48 ore dell'ultimatum, proposta da Eltsin giovedì scorso, sembrava avere aperto la strada a un difficile negoziato. Si tirava un sospiro di sollievo. Invece la svolta improvvisa. Il Consiglio di Sicurezza, riunito all'ospedale sotto la presidenza di Eltsin, ha cancellato in un colpo ogni apertura di dialogo. Niente più «incontri ad alto livello», niente rinuncia a «condizioni preliminari». Un telegramma partito alle 11,20 del mattino. Una secca intimazione a Dudaev: si presenti alle ore 18 a Mosdok, comando russo, di fronte ai due emissari di Mosca, Nikolai Egorov e Serghei Stepashin, «per discutere le modalità del disarmo». In caso contrario gl'inviati di Mosca hanno «i pieni poteri di intimargli un ultimatum». Il telegramma verrà corretto dopo pochi minuti, eliminando questo passaggio, ma la sostanza resta intatta. Il Cremlino non intende più trattare. Sanno bene, a Mosca, che Dudaev non accetterà. Gli propongono una resa pura e semplice. Gli chiedono di andare in territorio «nemico» senza neppure garantirgli la sicurezza personale. Lo sanno a tal punto che il comunicato ufficiale già invita la popolazione civile ad «abbandonare i luoghi di dislocazione delle formazioni armate illegali, al fine di evitare vittime». Oleg Lo bov, segretario del Consiglio di Sicurezza, dice che Dudaev, invece, aveva fatto conoscere la sua disponibilità «attraverso un suo collaboratore». Ma la rispo sta da Grozny è sprezzante: «Non commentiamo neppure il tele gramma. Non è un invito, è una provocazione». Nikolai Egorov, un ministro per le nazionalità che parla il linguaggio di un generale, va anche oltre: se non saranno cedute le armi senza condizioni «il comando missilistico ha l'ordine di bombardare la città a partire dalla mezzanotte di sabato». E mentre il Consiglio della Federazione, la camera alta del parlamento, riunito in seduta plenaria, chiede al presidente di «fermare immediatamente le azioni belliche e continuare il processo negoziale a più alto livello tra delegazioni governative», la macchina militare si rimette in moto al massimo regime. Ennesima prova che il potere legislativo, in Russia, «equivale a poco più che nulla», come dichiara uno dei vice-presidenti del Senato, Ramazan Abdulatipov. Nessuno può più fermarli. Lobov, che ha convocato in tutta fretta una conferenza stampa, annuncia che «le ore sono contate», che «tutti i mezzi a disposizione verranno usati per riportare la legalità costituzionale sul territorio della Cecenia», e manifesta la sua «profonda preoccupazione per l'incolumità della popolazione civile» che non abbandonerà le zone soggette ad attacco. Quasi a confermare le sue parole, ieri sera carri armati hanno sparato su una colonna di profughi, facendo nove morti. Il ministero degli Esteri lancia a sua volta un ultimo appello ai «cittadini stranieri» a sgomberare la zona, poiché «la loro incolumità non può più essere garantita». Vale in primo luogo per i giornalisti. Il primo vice-premier Oleg Soskovets annuncia che Grozny è ormai circondata da tre direzioni. Rimane aperta solo la via Sud, per chi vuole tentare la sorte. Dovrebbe servire anche per i (per ora presunti) «mujaheddin» islamici che sarebbero venuti in soccorso di Dudaev. E la Tv centrale insiste ossessivamente su notizie allarmanti che parlano di gruppi terroristici ceceni, armati di bazooka, giunti a Mosca per attaccare le auto blindate del corteo presidenziale. Dudaev, in modo quasi irridente, invita nel pomeriggio il premier russo Cernomyrdin a venire a Grozny. Ancora venerdì scorso, Cernomyrdin si era detto pronto personalmente a «andare dovunque» pur di evitare spargimento di sangue. Ma sabato è un altro giorno e l'invito viene decli¬ nato. Anche perché il capo del governo russo sta già firmando le disposizioni date da Eltsin, che istituiranno una gestione presidenziale diretta della ex repubblica indipendente di Cecenia. In caso di vittoria, naturalmente. Della qual cosa nessuno dubita, data la sproporzione delle forze in campo. Dudaev insiste ancora a manda un telegramma a Mosca in cui, come se non fosse successo niente, si dice disposto a trattare e chiede il ritiro delle truppe russe. Stepashin (controspionaggio) e Egorov volano a Mosdok prima delle 18, per adempiere alla formalità dell'impossibile incontro con Dudaev. Graciov (Difesa) e Erin (Interni) restano a Mosca. Insieme a Soskovets e a Lobov appaiono i veri protagonisti della situazione. Eltsin rimane sullo sfondo. Le rapidissime immagini del Consiglio di Sicurezza mostrate dalla tv lo ritraggono da lontano, silenzioso, mentre legge il comunicato dell'ultimatum, [g. c.) Boris Eltsin presiede il Consiglio per la sicurezza che ieri ha deciso l'attacco russo alla capitale cecena