Caselli: riunioni col pci ma anche in parrocchia di Giovanni BianconiSaverio Vertone

Caselli: riunioni col pei ma anche in parrocchia Caselli: riunioni col pei ma anche in parrocchia MAGISTRATI E POLITICA AROMA MORA, procuratore Caselli, è vero che lei frequentava le sezioni comuniste? «Guardi, io non intendo entrare in polemica con nessuno, ma le cose non stanno proprio così. Io posso ricordare un segmento del mio percorso professionale e personale, che peraltro è sempre stato pubblico e alla luce del sole». Va bene, ricordi. Il ministro Ferrara ha parlato di sue riunioni nelle sedi del pei, negli Anni Settanta. «Anni Settanta, dice. Proviamo a ricostruire che cosa succedeva in quel periodo. Nel '74, a me che facevo il giudice istruttore a Torino, arriva l'inchiesta sul sequestro Sossi da parte delle Brigate rosse, per connessione con altri due sequestri di nostra competenza. Nel '76 si arriva al primo rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle Br, chiesto dal procuratore Caccia e disposto da me. Contro il processo i terroristi scatenano un'offensiva violentissima, sotto lo slogan "la rivoluzione non si processa". Sempre nel '76, dopo un paio di udienze in corte d'assise, viene ucciso a Genova il Procuratore generale Coco con i due agenti di scorta, un delitto strettamente connesso al sequestro Sossi; il processo slitta di un anno e nel '77 viene ammazzato Fulvio Croce, che come presidente dell'Ordine degli avvocati di Torino stava organizzando, con grande coraggio, le difese d'ufficio. In questo clima, a Torino, città che si è sempre distinta nelle lotte contro ogni prepotenza e sopraffazione, non si riesce a formare la giuria popolare della Corte d'assise che deve processare le Br. Sul tavolo del presidente della corte si rovescia una valanga di certificati medici che parlano di sindrome depressiva, che in sostanza voleva dire paura». Ma che cosa c'entra questo con le riunioni di cui parla Ferrara? «C'entra perché in quel momento politici e amministratori locali, forze sociali, magistrati, poliziotti e altri rappresentanti delle istituzioni si chiedono che cosa si può fare di fronte a quella che appare una vittoria delle Br, che di fatto impediscono la celebrazione del processo. E allora, insieme alle riforme della corte d'assise, al potenziamento delle forze di polizia e altre misure, si comprende che è necessario coinvolgere l'opinione pubblica, perché la minaccia della violenza politica riguarda tutti, investe l'essenza stessa della democrazia. E' per questo che si cominciano a svolgere decine, centinaia di assemblee, con la partecipazione anche di alcuni magistrati impegnati in quel tipo di inchieste». Assemblee nelle sezioni comuniste? «Anche lì, ma non solo. Si andava ovunque, nelle sedi dei partiti, dei comitati di quartiere, del sindacato, nelle scuole, nelle parrocchie e nelle fabbriche. Erano assemblee difficilissime. All'inizio non partecipava quasi nessuno, poi si è passati alle domande anonime, scritte su bigliettini inviati al tavolo dei relatori, finché non si è arrivati alle riunioni con partecipazioni di massa. Soprattutto nelle fabbriche. Ma ne ricordo tantissime ovunque, compresa quella a cui fui invitato al cinema Eliseo, organizzata dai giovani democristiani. E quelle assemblee furono decisive». Perché decisive? «Perché si riuscì a far crescere una cultura anti-terrorismo e anti-violenza, a togliere l'acqua ai pesci. In molte basi delle Br e di Prima Linea trovammo veri e propri verbali delle assemblee: loro c'erano sempre perché avvertivano il pericolo politico mortale di queste iniziative. Finché venivano considerati dogli Zorro, Robin Hood o "compa¬ gni che sbagliano", infatti, la speranza di aggregazione c'era, ma di fronte a gente che cessava di essere indifferente e con le armi della democrazia cominciava a mobilitarsi contro le Br, entrarono in crisi. Andarono avanti, certo, con molti altri omicidi, ma anche la "slavina" dei pentiti cominciò dalla mobilitazione di massa e dalle assemblee. Inoltre, nel '78, quel famoso processo si fece: non solo "la rivoluzione" fu processata, ma lo fu nel pieno rispetto delle regole e del contraddittorio». Le assemblee si facevano dappertutto, però tutti si ricordano quelle nelle sedi comuniste. Perché? Ce n'erano di più lì? «Lo ripeto: ci sono state ovunque fosse possibile o richiesto, senza distinzioni. E' innegabile però che in quella prima fase, in certi settori della sinistra c'era di fatto un brodo di coltura per le organizzazioni terroristiche: era lì che bisognava prosciugare l'acqua. Anche le iniziative della magistratura, all'inizio, erano quantomeno malviste e fraintese: il mandato di cattura firmato dal sottoscritto contro il comandante partigiano Giovan Battista Lazagna, per esempio, accusato di partecipazione alle Br, scatenò una furibonda reazione a sinistra, con il giudice istruttore definito il "servo sciocco di Dalla Chiesa". Ma è altrettanto innegabile che successivamente, proprio a sinistra, ci fu un forte recupero, conseguenza di un forte e decisivo impegno anti-terrorismo. Per queste motivi possono essere stati "statisticamente" più frequenti i contatti con la sinistra, non solo attraverso le assemblee, ma anche in altri modi. Ad esempio il dibattito aperto da Saverio Vertono sulla rivista "Nuova Società", in anticipo rispetto agli altri nella valutazione della reale portata del fenomeno, senza però che ciò comportasse mai legami organizzativi o statutari con questo o quel partito». Ma non vi è mai venuto il dubbio che comunque la presenza dei giudici nelle sedi dei partiti potesse essere strumentalizzata? Che si potesse parlare, come poi è successo, di giudici politicizzati? «Per noi, e dico noi perché con me c'erano altri magistrati impegnati nello stesso lavoro, questo problema non c'era, perche nessuno ha mai messo in discussione la separazione netta e rigorosa tra impegno per così dire civile e culturale e impegno professionale. La disponibilità a confrontarsi e discutere con tutti non ha mai comportato confusioni, né il venir meno dell'indipendenza del magistrato. Questa ò una delle caratteristiche di Ma cjistratwa democratica, della quale ho notoriamente sempre fatto parte: cultura dell'indipendenza ma anche programmatica apertura al contatto con la società in tutte le sue componenti. Sarebbe davvero riduttivo costringere questa concezione del rappporto del giudice con gli altri, con la cosiddetta politicizzazione». E la supplenza della magistratura di fronte al «cedimento degli organismi pubblici»? Proprio Vertone dice che lei ne era un teorico. «La supplenza non l'ha mai teorizzata nessuno, semmai i magistrati l'hanno subita. In quel momento il problema della lotta al terrorismo non era quello, ma la sopravvivenza e la tenuta dello Stato di diritto. La riflessione sulla supplenza è successiva, e non investe solo la risposta al fenomeno del terrorismo politico». E' una riflessione che si può fare anche per la lotta alla mafia oggi? «Di oggi non vorrei parlare in questa sede. Posso solo dire che nei confronti della criminalità mafiosa, come allora per il terrorismo, non ci può essere soltanto la repressione, ma ci dev'essere anche il coinvolgimento dell'opinione pubblica, per un recupero del senso dello Stato. Anche attraverso le assemblee e i dibattiti. Ricordo che la mattina del giorno in cui morì, Paolo Borsellino stava scrivendo le risposte ad alcune domande sulla mafia da inviare ad una insegnante, dispiaciuto per non essere potuto andare a parlare nella scuola. Non potè completare le risposte perché fu assassinato». Giovanni Bianconi «Per battere le Brigate Rosse negli Anni di Piombo io e i miei colleghi abbiamo avuto incontri con tutti i partiti» Il procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli A sinistra: Paolo Borsellino e Saverio Vertone

Luoghi citati: Ferrara, Genova, Torino