Il mistero oltraggioso

il caso. Le ipotesi inquietanti di Combat film: uno storico aveva già indicato il presunto colpevole il caso. Le ipotesi inquietanti di Combat film: uno storico aveva già indicato il presunto colpevole Il mistero oltraggioso La Petacci violentata? Storia d'un dubbio Eproprio adesso - guarda caso - all'apice di questo sintomatico trionfo di necrofilia televisiva, di fagotti sanguinolenti a piazzale Loreto, di cadaveri mandati in onda su banconi d'obitorio a mezzo secolo di distanza, ecco, proprio adesso viene, anzi riviene fuori, sul Messaggero, la storia dello stupro alla Petacci. Horror storico-simbolico con risvolti di lugubre feticismo, dal momento che l'ipotesi di Claretta prima violentata e poi assassinata ruota intorno a un paio di mutande che, poveraccia, non aveva più indosso al momento della morte e dopo, e a una mancata autopsia. La nudità della donna, infatti, ultimo oltraggio in quei giorni di odio e di «macelleria messicana» (come la definì Parri), fu così visibile da indurre uh pietoso cappellano militare, don Pollarolo, a spillare o legare la gonna marroncina della Petacci appesa a testa in giù al distributore di benzina. Le versioni «ufficiali» del colonnello Valerio - su cui è doveroso nutrire sani dubbi - sono piuttosto ambigue (anche) sul particolare delle mutande, a tratti dettagliato forse un po' più del dovuto, quasi a inchiodare l'amante del Duce al suo ruolo di femmina da letto, in altri casi lasciato cadere come ultra-irrilevante. E al tempo stesso imbarazzante. La materia, certo, è quella che è: una specie di miniatura raccapricciante. Ma tant'è. In un primo (1945) racconto, comunque, il presunto giustiziere comunista, Walter Audisio, sostiene che nella fretta la donna cercò l'indumento intimo, senza riuscire a trovarlo. Quindi, nelle versioni successive, non vi fa quasi più cenno. Sulla mancata autopsia di Claretta, in compenso, Valerio o non Valerio, la questione è pacifica: non vi fu e basta. Il perché resta un mistero. Tanto da autorizzare, come appunto si legge sul Messaggero di ieri, l'ex deputato missino Giulio Caradonna a dichiarare che vi fu uno stupro: «So quello che dico. Me ne prendo tutta la responsabilità». Ma in questo caso la responsabilità, se Caradonna consente, va un bel po' al di là della sua personale onorabilità di storico e polemista. A pensarci bene, la riproposizione di questo specifico horror, segnaletico di un atto così infame da restare più o meno nascosto, se non rimosso, per quasi mezzo secolo, ha una sua propria energia negativa che va oltre il fatto che sia avvenuto realmente, e che sia provabile. Pure a cinquant'anni di distanza, tale simbolico miscuglio di violenza e sesso ad alta intensità emotiva ha l'effetto di delegittimare i vincitori - «i buoni» - di allora, che poi sono i fondatori del nostro presente. Plausibile o meno che sia, un'atrocità del gè¬ nere comunque proietta un'ombra di ferinità sul basamento non solo della Resistenza, ma anche di una Repubblica democratica che sarebbe nata, appunto, con uno stupro. Il che, come si comprenderà, non è la cosa più scontata e rassicurante. E perciò, ancora una volta, occorre prendere con i guanti (anche anatomici, data la materia da perizia necroscopica) le denunce che arrivano dopo mezzo secolo, i sospetti troppo di parte, le pseudo-rivelazioni pubblicitarie, i collegamenti arbitrari, le ossessioni dietrologiche che fioriscono attorno alla morte di Mussolini (e anche attorno alla supposta violenza sessuale ai danni della Petacci). Come siano stati uccisi Mussolini, cosa sia successo tra Bonzanino, Giulino di Mezzegra, come siano andate veramente le cose resta come avvolto da un velo di confusione in cui si agitano protagonisti, comparse e scomparsi in un tourbillon di perizie balistiche, scambi di persona, messe in scena, fon di proiettili, stivali, documenti falsificati, tesori, dossier appetiti da partiti e potenze. Ora Caradonna, ma da anni, alimentato di continuo da libri e testimo¬ nianze, s'è creato un circuito di diffidenti ricercatori di verità divisi - pure tra loro «eretici» su ciò che la versione ufficiale di quella morte non menziona. Da anni, così, proseguono le ricerche di Giorgio Pisano. Da anni un medico settantenne di Roma, l'Alessiani intervistato anche ieri dal Messaggero, ritira fuori le sue deduzioni sull'autopsia mussoliniana e, dinanzi a giornalisti sempre un po' perplessi, mostra il suo manichino con fori simulando, con pistole giocattolo, come e qualmente il Duce e la Petacci siano stati assassinati, seminudi, nella casa dei De Maria, anziché di fronte al fatale cancello. Per quello che riguarda il possibile stupro, fra tutti gli storici che vi hanno accennato, Franco Bandini, che fu anche biografo della Petacci, è quello che si è spinto più in là. L'ha fatto in una nota al suo bel (e introvabile, ormai) libro Vita e morte segreta di Mussolini. E poi, più recentemente in tv, intervistato da Mixer, ha indicato sia pure in forma dubitativa anche il nome del possibile esecutore. Un partigiano a nome Tomat: «Questo Domenico Tomat - ha spiegato Bandini in tv - non era proprio uno stinco di santo. E può anche darsi che abbia ecceduto nei particolari dell'esecuzione di Mussolini e soprattutto di Claretta. E' probabile che le cose siano andate in un modo che ha reso poi impossibile divulgare una verità che altrimenti avrebbe potuto essere divulgata molto semplicemente». Ora, pur con la migliore volontà investigativa, è difficile pensare che l'autore del presunto stupro venga fuori a dire: «Sì, questa violenza c'è stata e il responsabile sono io». S'arrende, dunque, la ricerca storica, e sfuma ogni giorno che passa la possibilità di sapere la verità, e forse anche solo d'illuminare in parte quel momento cruciale. Per cui l'unica chiave d'interpretazione che rimane è quella antropologica. Lo sostiene, con un approccio convincente nella sua novità, una giovane studiosa delle dinamiche simboliche, Cristina Cenci, da tempo impegnata in un saggio proprio sul corpo dei dittatori e di Mussolini in particolare. Il mistero e il caos intorno a quella morte si spiegano con la considerazione che non fu, o non fu soltanto, un atto politico, ma soprattutto un atto rituale, sacrificale. Quel che l'antropologia, appunto, definisce un «rito di passaggio», un evento simbolico che in sé condensa la fine (la morte) di una fase storica e l'inizio di un'altra. Claretta era dentro il rito. Nei momenti di crisi d'identità di una nazione, adesso cioè, tornano i fantasmi. Filippo Ceccarelli Benito Mussolini: il mistero sulla sua morte continua a far discutere Troppi testimoni contrastanti e imprecisi, troppe deduzioni diparte: e resta il giallo della nudità Le versioni ufficiali erano ambigue, l'unica certezza è che non si volle fare l'autopsia: non s'è mai saputo perché Un'immagine di Claretta Petacci. A sinistra l'amante del duce a piazzale Loreto

Luoghi citati: Mezzegra, Roma