Il calvinista del partito d'azione di Alessandro Galante Garrone

Il calvinista del partito d'azione Il calvinista del partito d'azione Galante Garrone: le sue scelte per la libertà CRIVO febbrilmente queste note disordinate a poche ore dall'improvvisa morte di Franco Venturi, con la speranza forse vana di riuscire a dominare l'impeto dell'angoscia. Uomo schivo, chiuso nel suo grande inesausto lavoro di storico sommo, di un'eccezionale severità verso se stesso, che forse gli proveniva da una madre e da una nonna calviniste, e di una forza generosa e quasi eroica di vivere, che lampeggiava nel suo splendido sguardo («occhi di pantera» lo chiamavamo nella guerra partigiana), egli aveva, da ragazzo, lasciato Torino e le amatissime montagne per seguire a Parigi il padre Lionello, il grande storico dell'arte che aveva rinunciato alla cattedra nella nostra università per non prestare il giuramento di fedeltà al fascismo. A Parigi si era legato a Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e Libertà. Gli erano compagni due torinesi, Aldo Garosci e Carlo Levi; più tardi, Gaetano Salvemini. Frequentò alla Sorbona maestri come Paul Hazard e Daniel Mornet; e subito fu attratto dalla passione per i grandi illuministi francesi, senza dimenticare i piemontesi Dalmazzo Vasco e Alberto Radicati di Passerano. Da Montesquieu e Rousseau passò a Diderot, alla cui formazione dedicò la sua prima grande opera, Lajeunesse de Diderot, che già portava i segni di una geniale originalità di studioso. Memorabile la recensione che ne fece, sulla Critica di Croce, il nostro migliore storico d'allora, Adolfo Omodeo. Arrestato dagli scherani di Franco, nei giorni del crollo della Francia, finì fortunosamente nelle mani della polizia fascista che, non troppo edotta del suo compromettente passato, lo spedì al confino. Di là ottenne di venire per qualche giorno in visita a Torino, in casa di Luigi Salvatorelli. E così lo conoscemmo, quando avevamo qui appena fondato un gruppo clandestino del partito d'azione. E qui egli si precipitò, alla caduta di Mussolini; e già tre giorni dopo l'arrivo dei tedeschi saliva in montagna; e poi a Torino organizzò la stampa del giornale degli azionisti (lo stesso faceva a Roma Leone Ginzburg) e addirittura la compilazione dei Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà, coadiuvato soprattutto da quella che sarebbe stata fino all'ultimo la sua grande compagna e poi moglie, l'indimenticabile Gigliola, di un'audacia favolosa. La più grande gioia di Franco era sempre quella di salire in montagna, fra i partigiani GL, ai quali sapeva dire, come nessun altro, parole vivificanti. Quando Torino fu liberata, subito apparve, da lui diretto, il quotidiano «GL», che durò fino al 4 aprile 1946, quando, poverelli come eravamo, fummo costretti a sospendere le pubblicazioni. In quest'ultimo numero, egli scrisse l'editoriale di commiato. Riporto le prime frasi di quel suo articolo: «Quando è uscito il primo numero di questo giornale si sparava ancora a Torino. I partigiani erano già padroni della città, gli operai delle fabbriche, ma per le strade la battaglia non era ancora finita e il giornale disse apertamente di essere l'organo dei partigiani e degli operai. Non nascondemmo a nessuno la volontà che tutti ci animava di far giustizia sul serio, di consolidare, politicamente e socialmente, quelle che erano state le conquiste dell'insurrezione arma¬ ta. Abbiamo veramente sperato che da quelle che erano state le forze della resistenza, il legame cioè tra un esercito nuovo e il popolo, tra la lotta armata e l'organizzazione del lavoro, tra città e campagna, potesse sorgere direttamente un'Italia rinnovata. Abbiamo anzi sperato, creduto, che proprio da Torino, dal Piemonte, dove più intensa militarmente, più profonda politicamente era stata la rivolta contro i fascisti, potesse partire il movimento che avrebbe esteso a tutto il Paese la volontà democratica e rivoluzionaria nostra e di tutti coloro che in quei giorni nelle città e nelle campagne combattevano ancora con una nuova speranza negli occhi». Dopo la guerra seguì come addetto culturale Manlio Brosio nominato ambasciatore a Mosca. Gigliola s'impadronì splendidamente della lingua russa, e diventò un'ottima traduttrice di opere russe. Franco, che già prima della guerra conosceva un po' di quella lingua ed era stato in quel Paese, sempre sulle tracce di Diderot - di cui Caterina II aveva nel '700 acquistata la biblioteca -, preparò colà la sua grande storia del populismo russo, tradotta poi in molte lingue. Tornato definitivamente in Italia riprese i suoi studi, e, vinto il concorso universitario, dopo essere stato a Cagliari e a Genova, insegnò per molti anni a Torino. E qui nacquero, uno dopo l'altro, i molti tomi del Settecento riformatore, l'opera a cui attese fino a ieri, che è - senza forse la più grande creazione storiografica italiana di questo secolo. E, da vero maestro qual era, creò una scuola di storici eccellenti, dal suo successore nella cattedra Giuseppe Ricuperati ad altri più giovani docenti, come Massimo Firpo e Luciano Guerci. Venturi resterà anche come un alto esempio di energia creativa, di fede nella libertà. Si può dire che egli abbia trasmesso alle generazioni più giovani una laica e combattiva fede negli imperituri valori della civiltà moderna. Una fede che non deve abbandonarsi al pessimismo e alla rassegnazione. A tutti egli addita l'esempio corroborante dei grandi illuministi del nostro Mezzogiorno del Settecento, come del più grande di loro, Antonio Genovesi, che si scagliava contro i «nonsipuotisti», ossia coloro che a ogni iniziativa coraggiosa rispondono sempre di no; o i non meno grandi riformatori del Nord Italia. A Milano, uno di loro, Pietro Verri, in uno slancio di entusiasmo fattivo, esclamava: «Se la mia è una follia, io so tuttavia che la società sarebbe migliore se ci fossero meno saggi». Avere fede in sé: è l'insegnamento che Franco ci lascia. Alessandro Galante Garrone