Un po brigante un po Robin Hood di Domenico Quirico

Un po' brigante un po' Robin Hood Un po' brigante un po' Robin Hood Da Tolstoj a Lermontov il fascino dei ceceni TRA STORIA E ROMANZO FORSE nello zaino di qualche ufficiale russo che marcia verso Grozny c'è un piccolo libro. Il titolo è un nome esotico e lontano, «Hadzì Murat». Racconta la storia di un eroe popolare, un guerrigliero senza macchia e senza paura, un Robin Hood caucasico di cento anni fa che lottò con coraggio e sfortuna contro altri soldati che indossavano le divise di Mosca. Il suo coraggio, la sua sfortunata dignità aveva affascinato un nemico, altrettanto romantico e leale che si chiamava Leone Tolstoj. Aveva attraversato il fiume Terek come migliaia di altri giovani russi che accorrevano nel Caucaso, esotica frontiera eternamente ribelle, per diventare adulti e imparare le aspre leggi della guerra e della amministrazione di un impero. Contro ceceni, tatari, abkazi scopri- vano i riti di una guerra antica e contemporaneamente la ferocia di un moderno colonialismo. Era il «grande gioco» come quello che recitavano i loro coetanei inglesi sulla Frontiera indiana. Kipling ha raccontato quella epopea. Ma anche il Caucaso fu la scuola di una illustre generazione di scrittori. Era il palcoscenico dei cosacchi di Tolstoj con la natura selvaggia fragrante di analogie e significati simbolici, così lontana dalle ipocrisie dei salotti di Pietroburgo; dove gli eroi non erano vuoti damerini ma quieti giganti come Masksim Maksimovic, il vecchio ufficiale dei racconti di Lermontov che diventa tutt'uno con la terra che ha domato con selvaggia energia. E gli avversari sono principesse ardenti e briganti crudeli le cui avventure hanno la dolorosa bellezza del paesaggio. A metà dell'Ottocento il Caucaso era già il destino e l'incubo della Russia, la terza Roma che arrancava con fatica verso i mari caldi e i domini dell'altro impero universale. I nemici non erano come oggi mafiosi e ex comunisti, ma santi uomini coperti dai drappi del Profeta. I murshid, ruvidi veggenti di montagna, infatti si ostinavano a portare i loro popoli alla Via della vera saggezza, dove non c'era posto per gli infedeli invasori, per i loro cannoni e la loro voglia di terra. Il nemico di Mosca si chiamava Kazi Mullah. Acquattato sulle montagne li tormentò, tagliò i loro rifornimenti, inventò la tattica dei mujaheddin. Quando fu ucciso la bandiera fu raccolta da un altro soldato di Dio, Samil, un altro santo guerriero. Alla fine furono sconfitti. Nel 1917 i bolscevichi li tirarono fuori dal passato per farne degli eroi popolari, adottarono la lotta di quei montanari contro lo zar. Ma la storia in Russia non è mai definitiva, è una specie di colpo di Stato permanente: da Robin Hood i ceceni furo¬ no retrocessi a «vergognosi esponenti del nazionalismo borghese». Bagirov, capo del partito comunista locale, li bollò come «strumenti dell'imperialismo turco e inglese». Quei ribelli non piacevano più a un sospettoso georgiano di nome Stalin. Anche lui aveva letto da giovane i romanzi caucasici ma, più che gli eroi di Tolstoj, preferiva ricordare «il duello» di Cechov. Dove proprio un ceceno è il simbolo del tradimento, dell'insidia nascosta, della doppiezza. I ceceni avevano davvero tradito, avevano sperato che fossero le armate di Hitler a ridare loro la libertà. Stalin li punì: milioni di loro furono deportati in Asia centrale, percorsero tutti gli stadi della dolorosa passione delle nazionalità ribelli. Domenico Quirico Stalin li deportò in massa nelle steppe dell'Asia Tolstoj ambientò nel Caucaso alcuni racconti Da sinistra: Stalin che punì i ceceni e lo scrittore Lermontov

Luoghi citati: Grozny, Mosca, Pietroburgo, Roma, Russia