Genova il regno di cento famiglie

Genova, il regno di cento famiglie E' il Comune più indebitato d'Italia, con un tasso di disoccupazione del 15 per cento Genova, il regno di cento famiglie Nel forziere Bot e affitti, ma la Lanterna si spegne CGENOVA HI nù danze nù tetta - chi non piange non succhia il latte -, recita un antico detto popolare genovese, nel quale qualche maligno vuol rinvenire una sorta di topos della città nei secoli dei secoli; o, perlomeno, da Cavour in poi, quando, per la potenza del Regno Sabaudo, si gettarono proprio qui le basi dell'industria assistita, di quello che sarebbero poi diventate le Partecipazioni statali, oggi - postfascisti e postcomunisti permettendo - in via di smobilitazione. Noi, per doveroso rispetto, preferiremmo alquanto citare, semmai, i famosi versi di Eugenio Montale, di cui sta per celebrarsi il centenario: Codesto solo oggi possiamo dirti/ Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Ma, purtroppo, dopo l'ultima alluvione, poche settimane fa, il sindaco Adriano Sansa, ex pretore d'assalto ai tempi del primo scandalo dei petroli - narrano che una volta minacciò persino di far arrestare il cardinal Siri -, poeta nel tempo libero e sicuro cultore di Ossi di Seppia, pur prediligendo Valeri e Barile, se n'è uscito col solito, alto grido del tettare, proclamando quel che pretende: mille-miliardi-mille dallo Stato per non affogare nel fango. Ma bisogna pur capirlo il sindaco: è stato eletto giusto un anno fa con i voti del pds, dopo che Claudio Burlando, postcomunista vigorosamente emergente, era stato impiombato da un ramo di Tangentopoli. Dell'onestà personale dell'ex sindaco, oggi chiamato a Botteghe Oscure come responsabile degli Enti locali, quasi nessuno dubita, ma fatto sta che, nell'incedere delle Colombiane, si trovò, meschino, ad avallare frettolosamente il Sottopasso di caricamento, opera grande e utile, se soltanto disponesse in centimetri dell'altezza sufficiente - cosa che purtroppo non è - per far transitare i Tir. L'innocenza sostanziale di Burlando è tale che si narra di una lunga attesa notturna di Achille Occhetto, ancora segretario, al casello dell'autostrada, per poterlo abbracciare al momento della scarcerazione. I pidiessini genovesi - che pure non risparmiarono imboscate a Burlando replicarono all'attenzione occhettiana votando in massa per Veltroni come candidato alla segreteria, in alternativa a D'Alema. Insomma, caduto Burlando, Sansa arriva e si trova sulla schiena il Comune più indebitato d'Italia, forse preceduto soltanto da Napoli; la città più vecchia e con minor natalità d'Europa; un tasso di disoccupazione al 15 per cento, come nel profondo Sud; 16 mila dipendenti, praticamente ingestibili, tra Comune e municipalizzate ; i grandi gruppi a partecipazione statale che chiudono bottega e se ne vanno senza profferir parola; il porto ancora dominato, tutto sommato, dalle suggestioni rossocorporative dello storico console Batini (un personaggio di superlativa capacità politica e coi controcoglioni, secondo l'espressione di don Gianni Baget Bozzo, che ricorda come il cardinal Siri scelse il Batini, quando questi andò a duello per il porto con Roberto D'Alessandro); e, per sovrapprezzo, le montagne che con due gocce di pioggia vengono giù. Che volete dirgli allora a Sansa, se il Matitone, il grattacielo sede dell'Italimpianti, disastrata dall'ex presidente dell'Iri Franco Nobili, si svuota tristemente? O se il Ponente scende a valle con l'acqua? Magari che prendersela con Berlusconi serve a poco e che a costruire sopra i rii, a deviarli ad angolo retto, a interrarli o a infognarli son state anche le giunte di sinistra. Che son stati anche comunisti e socialisti a far piovere sui poveri. Perché la teoria di don Baget Bozzo, che vuol tornare a fare il prete, ma non silente, è che a Genova sui poveri piove di più, perché non c'è in Italia città più classista: i ricchi a via Garibaldi e nei quartieri alti, i professionisti benestanti nel Levante, i poveri a Ponente, dove adesso si muore pure affogati. Sansa, per la verità, non solo ha dato una regolata al Leoncavallo locale, il centro sociale Zapata, ma, vivaddio, vuol spianare Le Lavatrici, il mega quartiere di Pegli tre (Paghi uno, Pegli tre - dice una pessima freddura cittadina), che si affaccia sulla Genova-Savona. Chissà se gli hanno mai raccontato di quando la giunta di sinistra inaugurò il ghetto del Cep: il sindaco socialista Cerofolini taglia il nastro, con al, fianco il vicesindaco comunista Castagnola. Due palazzi mostruosi si stagliano uno di fronte all'altro, cop Wlihestrè che si guardano. Cé'ròfolini interroga interdetto un progettista: perché le finestre non guardano il mare? E quello: meglio che i due palazzi si guardino in faccia, così socializzano. Una battuta, al di là dell'intenzione, degna di Beppe Grillo più che di Paolo Villaggio. Pensate allora al titolare di una delle ultime Isole Rosse d'Italia, dove vigono mugugni e veti incrociati; dove, per dirne una, la rissa intorno alla presidenza della Camera di Commercio, tra alterne vicende, dura ormai da quattro anni e, dopo aver bruciato l'ex presidente dell'Alitalia Umberto Nordio, vede contrapposti i signori Gianni Scerni e Adriano Calvini, due star da telenovela; dove il porto se l'è preso il ministro dei Trasporti postfascista Publio Fiori, mettendoci un ex democristiano come lui, che tutti in città, di destra e di sinistra, definiscono una pura nullità, anzi semplicemente il cognato dell'ex onorevole de Orsini; dove i boss delle Partecipazioni statali regnano ancora con le loro corti, ma non riescono a garantire neanche mezzo posto di lavoro; dove Bruno Musso, amministratore delegato dell'Ansal- do, un gruppo pubblico miracolosamente ancora vitale, si stupisce che siano agognate non tanto le attività produttive, quanto le sedi di rappresentanza; dove le cento grandi famiglie, il dieci per cento degli iscritti allo Yacht Club (non è garantita l'iscrizione se per caso sei stato respinto dall'Opus Dei), e il cento per cento al Circolo dei Nobili di via Cairoli, staccano cedole e amministrano palazzi per migliaia di miliardi. Sì, le cento famiglie a Genova non sono poco, perché, se il reddito scende, il patrimonio prò capite è sempre il più alto d'Italia, non perché, siatene certi, gli inquilini delle Lavatrici sona indefessi risparmiatori, ma perché poche famiglie detengono un immenso patrimonio immobiliare e staccano cedole di Bot come se piovesse. Tutto farebbero del loro capitale, fuorché farlo girare in attività produttive. A quelle ci hanno rovinosamente pensato altri, dai tempi di Cavour e fino a quelli del grande ministro democristiano delle Partecipazioni statali Gior- gio Bo, che, quando Genova era forte, sedeva in Consiglio dei ministri con i concittadini Russo e Taviani. Come dicono gli elettori rossi del sindaco Sansa? Rendita finanziaria: sì, proprio di quella si tratta, quella è la risorsa, naturalmente per pochi, di Genova, città orba di grandi imprenditori privati, ma piena di aziende pubbliche per la maggior parte decotte e di avvocati d'affari, anche se il presidente della Federazione degli industriali, Titti Oliva, si affanna a dimostrare come la piccola imprenditoria sia attiva. Ormai tutti i ragazzi studiano giurisprudenza, come nel Sud, e nessuno ingegneria, lamenta il prete politologo, che di sicuro sta già allevando alla sua scuola qualche nuovo allievo ligure per l'alta politica. Ma figurarsi - lo contraddice il presidente della Finmeccanica Giorgio Oldoini, commercialista -, se ne sono andati anche gli avvocati e i commercialisti, quelli di vaglia allevati alla scuola della professoressa Lucifredi, di Salvatore Satta e Giovanni Conso. E' forse più genovese il fiscalista per eccellenza Victor Uckmar? E sarà mai più possibile la grande politica genovese, quella dei tempi della mitica troika Siri-Costa-Taviani? Taviani, unico superstite, si occupa ormai a tempo pieno dei suoi studi colombiani; Angelo Costa, in sede storica, s'è rivelato un grande presidente della Confindustria, uno dei pochi veri cattolici liberali che la patria sembra aver prodotto; e il cardinal Siri pare che non fosse poi così di destra come lo si dipin- geva: certo, per lui il centrosinistra, quel Nenni col basco che voleva entrare nella stanza dei bottoni, era sì praticamente il maligno, ma quando si trattò di costruire la Soprelevata fu lui a pretendere che le strutture fossero rigorosamente in acciaio, per dare più lavoro agli operai dell'Italsider. Capite, adesso, la potenza della cultura genovese del tettare, coniugata con lo statalismo perfino inconscio da ultima Isola Rossa? Un'isola nella quale convive tuttora, ottimamente, quel gruppo di grandi famiglie tra le più immohiliste d'Italia. Prendete Giamba Parodi,, ottantenne gentiluomo: non potete capitare a Genova senza sentir parlare di lui. Vuoi perché gli si attribuisce un patrimonio oscillante tra i mille e i tremila miliardi, vuoi perché - mitico risparmiatore in un'era d'indicibile scialo - gira ancora in città a bordo di una Fiat 126 blu condotta dall'autista, senza cappotto, con le camicie di Finollo un po' lise e così narrano - quando scende le scale del suo palazzo svita le lampadine che al momento giudica superflue. Miti, chiacchiere, forse, ma c'è un fatto certo: a Genova 20 mila vani sono vuoti. Uno spreco? Figurarsi, tutt'altro: il modo, semmai, per tenere elevati i valori di mercato e preservare il patrimonio. Criminalizzare per questo Giamba sarebbe tuttavia davvero delittuoso, perché lui è, in fondo, una specie di istituzione cittadina, un incolpevole simbolo dei ricchi. Ma che fanno di diverso i Doria, i Pallavicino, i Cattaneo Adorno e quant'altri? Per la verità, i Cattaneo Adorno, benemeriti, non soltanto hanno provocato l'ultimo brivido cittadino - a parte le sfuriate di Renzo Piano per l'Expo e le alluvioni -, ricevendo qualche anno fa la regina Elisabetta a visitare la loro superba quadreria, per il 90 per cento non denunciata alla Sovrintendenza (pensa tu, povera Elisabetta, che problema ha di servitù - mormorava compresa qualche sciuretta borghese ammessa alla visita reale), ma Giacomo, detto II Marchesino, ha messo perfino su un'impresa di lavori civili. Certo poca cosa per uno che dispone di credito illimitato in banca - alla Carige, grande istituzione cittadina incardinata in un palazzo che al solo aspetto dichiara grandeur, illuminato la notte come un casinò di Las Vegas, e al Credito Italiano -, ma pur sempre qualcosa. Ecco, come si dice, il contesto del sindaco Sansa. Da una parte le grandi famiglie, ricchissime, ma chiuse ancora in scagni un po' polverosi alla Gilberto Govi, che staccano cedole e riscuotono affitti, dall'altra un sistema colonizzato dalle Partecipazioni statali morenti e un pds che fatica assai a diventare tale, a sistemarsi all'ombra della quercia, nelle mani del segretario regionale Graziano Mazzarello e del migliorista Claudio Montaldo, divisi da molte cose, ma uniti da una lunga linea grigia, sostanzialmente operaista e conservatrice: prima di tutto, comunque, il posto sicuro nelle Partecipazioni statali. Per questo, Andrea Ranieri, capo della Cgil e inventore di Burlando, resta il loro mèntore. Come dargli torto, del resto, se in città le uniche imprese private di qualche dimensione, a parte quella petrolifera di Riccardo Garrone e quella armatoriale di Nicola Costa, che ha rilanciato le crociere e gestisce l'Acquario dell'Expo, una delle poche novità cittadine voluta da Burlando dopo aver visto l'acquario di Baltimora, si contano sulle dita di una mano? La Marconi, il colorificio Boero, la Elah Doufour e poi chissà chi, se non le tante microimprese segnalate da Oliva. Sarà vero che l'impresa cattiva, quella assistita dai soldi dello Stato, scaccia quella buona, competitiva? Certo, non si può dire che sia popolarissimo il sindaco Sansa, dicono si comporti come un giudice, che vede ladri dappertutto, che è poco comunicativo, che in procura, del resto, lo chiamavano Scansa, ma anche, per la verità, che gli è toccata, nel momento peggiore, la capitale più sfigata d'Italia: la crisi del porto, quando si fregiava del titolo di capitale della portualità; quella della cantieristica, quando i bacini già ansimavano; la crisi dell'impresa pubblica tout court, quando, addormentata sullo statalismo, era capitale non italiana ma mondiale delle Partecipazioni statali; la cancellazione, in un solo colpo, delle centrali, quando stava per diventare, con l'Ansaldo e una squadra di 1700 superingegneri, capitale del nucleare (4 mila miliardi di business), ma il sindaco Cerofolini la dichiarava città denuclearizzata, dopo la militante partecipazione di Claudio Martelli al convegno dei Verdi a Norimberga. Tutto vero, anche la sfiga di eterna capitale mancata, che oggi ritenta con il Vte, il nuovo porto di Voltri e con la direttissima ferroviaria Genova-Milano, che è nelle mani capaci dell'avvocato Giuseppe Manzitti, antico direttore della Confindustria e piccolo Cuccia cittadino fin dai tempi della trojka. Ma nella sua Isola Rossa, punteggiata da nobili e grandi borghesi un po' impigriti, il sindaco Sansa gode oggi di un privilegio senza pari: non solo non c'è più il cardinal Siri, padre-padrone, ma un vescovo come monsignor Canestri, che si definisce parroco di campagna e che fa arrabbiare i siriani per il suo non interventismo (tanto che il cardinal Ruini vuol sostituirlo col più roccioso monsignor Tettamanzi, segretario della Conferenza episcopale), ma un'opposizione assolutamente ipocorticale, che se sta ferma già fa ridere, se poi si muove fa subito il vaudevil le. Prendiamo la Lega: con la diaspora di Bruno Ravera, ristoratore fallito ed ex titolare di un'agenzia di cuori infranti, detto l'Oste Brigante, di Sergio Castellaneta, presidente dell'Ordine dei medici, più acculturato, ma non meno folcloristico, e del senatore Enrico Serra, la Lega si è praticamente sfarinata e poco può il ministro Pagliarini per tenerla insieme. Per non dire del msi, rappresentato umoristicamente dal deputato Francesco Marenco, diventato famoso per le interrogazioni demenziali e per aver partecipato a un pugilato nell'aula di Montecitorio. Forza Italia, tolto il coordinatore Enrico Nan, ha il club degli avvocati liberali amici di Alfredo Biondi, che conta qualcosa soltanto perché è diventato intimo di Cesare Previti, ma schiera anche l'unico personaggio veramente emergente a Genova e in Liguria. Nessuno, per la verità, descrive Luigi Grillo, ex bancario ed ex democristiano di sinistra amico di Goria, come un fulmine di guerra, ma Baget Bozzo garantisce che è uno con gli attributi e, comunque, dopo l'abbandono del ppi, Berlusconi ne ha fatto un sottosegretario alla Presidenza così potente, soprattutto nei rapporti con la pubblica amministrazione, da far ingelosire Gianni Letta. Pensate cosa può fare da lì, se durerà, per la Genova che danze e tetta, dando magari la polvere a Sansa, il quale per ora non sembra incamminato, nell'immaginario cittadino, sulla via di Vittorio Pertusio, il sindaco dei tempi della trojka più amato dai genovesi. E ad ogni temporale franano le colline Il sindaco Sansa chiede 1000 miliardi Via le aziende statali Il ministro Fiori nuovo «padrone» del porto E Un'immagine del porto di Genova A sinistra, Paride Batini In aito, il fiscalista Uckmar e fregi su un palazzo nobiliare II sindaco Adriano Sansa