MACCARI E LONGANESI di Oreste Del Buono

MACCARI E LONGANESI MACCARI E LONGANESI Italiani paralleli se», esageravano addirittura in simmetria e ripetitività. Mino Maccari aveva informato Leo Longanesi che Landò Ferretti, capo ufficio stampa di Mussolini, gli aveva sospeso l'elargizione del contributo per il Selvaggio. «Se hai occasione di vedere Arpinati, raccontagli il mio caso. Voglio dare una lezione a quel sudicio pontederino. Saluta Morandi e i tuoi. Se non scrivi, ti porterà disgrazia...». La stagione di Strapaese era definitivamente passata. Ora imperavano i burocrati. Poiché il federale Ghinelli non gli aveva neppure consentito di pubblicare un addio ai lettori sull'Assalto, Leo Longanesi si sfogò nell'Italiano della fine dell'ottobre 1931 in un pezzo non firmato che parlava non solo a nome proprio ma, consapevolmente o no, anche a nome dell'altro nano di Strapaese: «Anche noi invecchiamo. Il tempo ci è sfuggito da una tasca forata, e con lui ogni speranza di successo e di fortuna. La carriera è un peccato troppo pesante per noi. Occorrerebbe rinunziare alla libertà dei nostri disagi ed accettare una rete di protezioni così vasta che ci imprigionerebbe in consuetudini e ipocrisie impossibili. Troppe rinunzie occorrono per adattarsi alla procedura del successo: dovremmo perfino rincasare e inviare cartoline natalizie ai critici. Noi manchiamo agli appuntamenti, perdiamo i treni, letichiamo troppo spesso per meritare la fiducia della rispettabile clientela. Additati come cattivo esempio di intelligenza inutile e dissoluta, moriremo senza aver concluso un contratto di cinquecento lire per articolo. Ma se tornassimo a nascere, rifaremmo la stessa strada senza raccorciarla di un passo...». Vivendo, nonostante la sua spregiudicatezza, quel licenziamento brutale come una vergogna sociale, Leo Longanesi si trasferì con tutta la famiglia da Bologna a Roma, raddoppiando l'impegno per far dell'Italiano la migliore rivista in circolazione, ma riducendone la parte politica, esperimentando sulla propria pelle quanto aveva pubblicato anni prima, nel gennaio 1929, sotto la stessa testata: «Il fascismo non ha tolto la libertà di stampa, ma introdotto la responsabilità di stampa, e i giornali d'oggi sono monotoni, uguali, zelanti, cortigiani e leccapiedi appunto perché nessuno ha il coraggio d'assumere questa responsabilità, a costo di perdere onori e cariche...». Quando aveva pubbli¬ e pp cato queste parole, pensava che il discorso riguardasse gli altri, ora scopriva che riguardava anche lui. E come lui Mino Maccari, trasferitosi a sua volta nella capitale per lavorare nella redazione del Popolo d'Italia. I loro destini erano di nuovo persino troppo paralleli. Al «Caffè Aragno» potevano passare ore a discutere in un gruppo di amici e conoscenti intorno a Vincenzo Cardarelli che già posava a «il più grande poeta morente» sempre incappottato d'estate come d'inverno. Le discussioni, il più delle volte, finivano per risolversi in un duello tra i due «nani di Strapaese» che si strappavano la battuta in un crescendo di provocazioni, cattiverie e indiscrezioni sinché il vate di Tarquinia, che nel 1887 al tempo della sua nasci- Una girandola di cattiverie e provocazioni al Cajfì Aragno per la gioia delle spie fasciste ta all'anagrafe come Nazareno Caldarelli si chiamava Corneto, non si decideva ad impartire, urbi et orbi, la sua lezione da autodidatta sul classicismo. Non erano veri e propri amici, ma complici ed emuli feroci destinati tutti a venire assunti come araldi del pensiero liberale. Non importava chi dei due aprisse il fuoco, l'altro stava già ribattendogli senza finir di ascoltare. «Di Mussolini ce n'è uno solo al mondo. Di Farinacci svariati milioni...» diceva Mino Maccari. «Di Mussolini non mi fanno paura le idee. Ma le ghette, le ghette...» diceva Leo Longanesi. Si rubavano le battute di bocca per la gioia interessata delle spie del regime che frequentavano il «Caffè Aragno» e correvano a riferire a chi di dovere. «Non si parla più di normalizzazione. Ci viene il sospetto che o e sia un fatto compiuto...». «La borghesia non ha idee politiche: si adatta a tutto in modo borghese...». «Nel fascismo non ci sono comandanti, ma comandati...». «Si scrivono raccomandazioni e lettere anonime: ogni altra espressione letteraria è inutile...». «Noi abbiamo avuto sempre le sue opinioni...». Mussolini poteva convocare Leo Longanesi a Palazzo Venezia anche solo per ostentargli le fiammanti ghette che sapeva invise al compaesano. «Il regime stava per trasformarsi nella grossa e grossolana commedia degli "immancabili destini" e del "meglio un giorno da leone", ma nessuno se n'era ancora accorto», testimonia Indro Montanelli nel libro scritto insieme con Marcello Staglieno Leo Longanesi (Rizzoli, 1984). «Longanesi, che le nazionali reazioni e allergie le anticipava almeno d'un decennio, sì. Ma il fascismo stava anche facendo cose abbastanza serie, stava per esempio finendo di prosciugare le paludi pontine. Stava debellando la mafia e il banditismo in Sicilia, costruendo una bellissima aviazione. Questo, in fondo, contava. Quanto al resto, per il momento non c'era che da scherzarci su. Eppoi Leo subiva ancora profondamente il fascino di Mussolini: bastava un complimento del duce a un numero dell'Italiano per farlo uscire da Palazzo Venezia tutto contento...». Ci erano voluti tre mesi a Leo Longanesi per rimettere in piedi l'Italiano dopo il suo sfratto da Bologna, aveva dovuto vincere lo scoraggiamento, almeno in se stesso, per poi tentare di reimporsi anche ai suoi collaboratori e ai suoi lettori. Il primo numero dell'Italiano a Roma uscì nel gennaio 1932, mentre il numero precedente era uscito nell'ottobre 1931. Mino Maccari parve rispettare come una legge il trimestre di riflessione. Il trasferimento del Selvaggio da Torino a Roma era stato annunciato nel numero di dicembre 1931, e il primo numero del 1932 uscì nel marzo. I due «nani di Strapaese» rischiavano quasi di confondersi, per chi non lì conosceva ultra bene. Valga ancora la testimonianza di Indro Montanelli nel libro già citato: «Molti hanno sottolineato la differenza tra Longanesi e Maccari, a vantaggio di quest'ultimo, a partire da Ragghiami in un'antologia dove (certo anche per l'iireperibilità del foglio) non compare il Selvaggio squadrista. Pressoché dello stesso parere è Giorgio Luti. Più equanime, Paolo Cesarmi insiste Oreste del Buono

Luoghi citati: Bologna, Roma, Sicilia, Tarquinia, Torino, Venezia