Dalla Berlino di Lucien Freud alle Langhe di Eso Peluzzi

Dalla Berlino di Lucien Freud alle Langhe di Eso Peluzzi Nel Castello di Barolo, un confronto tra espressionismo e modernità Dalla Berlino di Lucien Freud alle Langhe di Eso Peluzzi ~W] BAROLO I N due sale contigue del I castello si confrontano I fino al 31 dicembre la _il violenta fisicità esistenziale delle acqueforti del berlinese-londinese Lucien Freud, intrise di brutalità urbana, e i modi e i tempi pacati della meditazione pittorica di Eso Peluzzi su natura e umanità quotidiana della sua provincia di vita, dalla Liguria savonese al Monferrato e alle Langhe. Solo una considerazione superficiale ridurrebbe il conflitto ai termini di presente e di passato, anziché a quelli reali di radicale differenza umana e psicologica. Inversamente, se noi consideriamo, all'ingresso della mostra di Peluzzi, la nettezza grafica del pastello di Autoritratto a Montechiaro degli anni di esordio dopo la prima guerra mondiale o, nel 1939, la parallela evidenza oggettiva di uomo e di ambiente nel grande olio del Ritratto di imbalsamatore, possiamo trovare radici linguistiche comuni nella grande grafica, fra modernismo ed espressività, che interpretava in modi eterodossi la realtà nei primi due decenni del secolo. E' comune ad entrambi, pur nelle diversissime circostanze di ambiente e di cultura, la primarietà di un sensibile segno, disegnato, inciso, tracciato a pennellino, come premessa costruttiva e direttiva delle vibrazioni di luce e di colore. E si tratta per entrambi di un segno «nordico», di tipo secessionistico, ovviamente più evidente per ragioni generazionali nelle opere di Peluzzi degli Anni 20 tipica in tal senso Contadina delle Langhe -, filtrato in Freud dalla «Nuova Oggettività» tedesca. E' questa particolare declinazione linguistica, che avvicina il giovane Peluzzi dopo l'educazione sabauda con Grosso e con Cesare Ferro alle forme espressive di Viani o di Bonzagni, a farne una figura a parte nel contesto che è pur sempre quello dell'ambito torinese di Casorati e dei Sei. Questa particolare «nordicità» appare un solitario approfondimento, nei termini dell'arte fra le due guerre, di un'eredità piemontese tutt'altro che tradizionale, da Bosia a Bozzetti, da Buratti alle im¬ pronte lasciate fra Piemonte e Liguria da Pellizza e Morbelli. Ciò è massimamente evidente in un capolavoro come Mio padre liutaio del 1932, che fa persino pensare a un Hodler. La lucida padronanza dello strumento pittorico è straordinaria, gli permette in stretta contemporaneità di sfidare in intensità cromatica il meglio torinese in Polenta e latte del 1926, mantenendosi d'altronde fedele alla sua poeticità dell'umile, e di attinguere alle sottigliezze incantate di particolari aspetti del miglior Novecento nelle variazioni in grigio della Natura morta del 1927. Uno dei suoi temi tipici, in cui una grande ma asciutta, rattenuta ricchezza pittorica si abbina allo spessore umano, è presente con gli Scolari di campagna. Che poi l'ottantenne pittore vivesse ben dentro nel suo e nel nostro tempo, sono qui a dimostrarlo quattro esemplari dei suoi ultimi Frammenti di violini antichi, capolavori neometafisici di pura trasparenza pittorica. Marco Rosei NznimdzdtMurnzddsfaemlR

Luoghi citati: Barolo, Berlino, Bosia, Liguria, Montechiaro, Piemonte