Con i cetnici, all'assedio

Con i cetnici, all'assedio Con i cetnici, all'assedio A Velika Kladusa, la prossima Bihac L'ULTIMA BATTAGLIA VVELIKA KLADUSA EDETE? Tutto in mano nostra, sta dicendo l'ufficiale serbo. E proprio in quel momento s'espande il boato di un cannone, riprende fitta la fucileria mentre l'eroica pattuglia giunta a documentare la vittoria finisce per le terre, acquattata dietro le auto. No, Velika Kladusa non è ancora «in mano loro», come non è in mano loro Bihac, trenta chilometri più a Sud. Lo saranno presto, però. Qui sulla «Zrtava Fasizma», la strada principale, dedicata alle vittime di una guerra fa, serbi delle Krajne e musulmani di Abdic hanno il controllo di tutte le case che scendono fino al centro. «Ancora ventiquattr'ore e scacceremo gli ultimi uomini del quinto Korpus», annuncia l'ufficiale, che si chiama Sava e per il governicchio di Abdic funge un po' da capo delle relazioni esterne. «Stiamo combattendo da undici giorni: venite a vedere?». Ce ne sono di cose da vedere, in due giorni trascorsi nella sacca di Bihac. Due giorni vissuti dal punto di vista dei vincitori (poiché sono sempre e soltanto gli uomini delle Krajne, a consentirti o negarti il passaggio). Di spostamenti continui, seguendo i contorni della Petrova Gora, il massiccio che una volta separava il territorio croato da quello bosniaco e adesso serve solo a rimandare di qualche giorno la grande saldatura, l'abbraccio fra alleati. Pochi giorni ancora e quest'angolino di Bosnia incuneato tra i vecchi confini entrerà a far parte a pieno titolo della «Srpska Autonomna Oblast» di Krajna. Un altro tassello per la regione autonoma che usa la moneta di Belgrado, le armi di Belgrado, e forse anche i suoi soldati. Dico forse perché in due giorni non ho incontrato un solo soldato che non si dicesse serbo delle Krajne o musulmano di Abdic, mentre molti sono i «volontari» venuti dalla Jugoslavia attuale. Medici, infermieri, esperti di comunicazioni. Insomma: cooperanti. Cooperanti, esattamente come quegli uomini delle Nazioni Unite che ho visto percorrere le Krajne in lungo e in largo, alla guida di convogli con cibo e medicinali, mentre a partire da Vojnic im- provvisamente hanno preso a rarefarsi. Ora, dovete sapere che Vojnic è il primo paese rimasto in piedi dopo la distesa di case inscheletrite che segue come una platea di mummie la strada tutta dossi e curve che da Petrinja, attuale posto di frontiera, comincia a inerpicarsi in direzione della montagna. Vojnic è però anche sede del «governo provvisorio» di Fikret Abdic, il manager-traditore dei musulmani, nonché ultimo luogo praticabile prima di entrare in zona di operazioni. Bene, adesso siamo in zona d'operazioni, anzi dentro le operazioni, ma pochi minuti fa entrando a Velika Kladusa siamo passati dinanzi a un «check point» delle Nazioni Unite annunciato da un cartello in tre lingue, però desolatamente vuoto. Non c'erano «caschi blu», al posto di controllo, non ce n'erano negli acquartieramenti lungo la strada, né in quello che doveva essere stato un deposito di riformimenti e mezzi. Tutto abbandonato con molta fretta, e solo pochi giorni fa. Non un solo soldato, non una presenza estranea all'impasto di odii che agita queste forre. Lì dove si spara, dell'«interposizione» • Onu resta solo il fantasma. Spettrali adesso paiono anche le tracce di chi, fino a poche ore fa, da dietro queste case sparava e forse moriva. Superati gli ultimi tornanti, passato quello che un tempo era il posto di frontiera Bosnia e Croazia, Velika Kladusa si presenta come un borgo contadino che via via prende la consi¬ stenza del paesone. Sulla destra, case moderne, l'antro vuoto di un «Flash Bar», l'insegna pomposa di un «Buffet Jadran». Sul versante opposto, che si arrampica verso un bosco, abitazioni più modeste e qualche vecchia casa in legno con l'aria dell'«isba». «Erano qui dietro. I mujaheddin...». Dice così, il tenente Sava. Come poche ore prima, a Sud, in un tentativo di avvicinamento a Bihac, un altro ufficiale aveva imposto lo «stop» e spiegato, gentile: «Non si passa, la zona ò pericolosa. Il quinto Korpus si sta ritirando, ma lascia dietro di sé gruppi di due o tre soldati. Fanno i kamikaze. Ma avete sentito la loro radio? Sono tutti fanatici, continuano a gridare «Allah u ahkbar»...». Il grido, sintonizzandomi sulla radio del quinto Korpus, non l'ho sentito. Ho sentito piuttosto gli spari di quel che resta dell'armata: poca cosa, rispetto alla potenza di fuoco dell'armata serba. Adesso, per esempio, dietro questa collina c'è un carro armato che a tratti cannoneggia un deposito d'acqua, i mortai si fanno sentire a ondate. «Sente? I "mujaheddin" dicono che domani partiranno all'offensiva: domani invece a prendere il resto della città saremo noi». Anche qui si combatte casa por casa: fortunatamente non ci sono di mezzo i civili. Quasi tutti erano fuggiti tre mesi fa, quando Velika Kladusa era stata presa dai bosniaci. Adesso in sedici, o diciottomila si accalcano nelle discariche umane di Turanj e Batnoga. Tarine qualcuno, che seguendo le truppe vittoriose torna ad affacciarsi nella propria città, tenta di raggiungere la casa abbandonata. Sono qualche decina, camminano a gruppetti. Seguono i bordi della strada, vanno e tornano in fretta. Una donna di mezz'età riesce a portare sulla testa un materasso arrotolato. Si chiama Scemsa Sabic, piange come una fontana. «Mio figlio piccolo è nel campo di Batnoga, con una gamba in meno. Ho appena rivisto la mia casa: non c'è rimasto più nulla...». I vecchi paiono meno preoccupati, anche perché ne hanno viste altre. Di quelle «vittime del fascismo» cui la strada è intitolata qualcuno, da giovane, era amico. E' una scena surreale, a tratti: soldati che corrono chini in direzione degli spari e donne che camminano col corredo in mano, vecchi con baffoni e «sciùbare» quei mezzi turbanti neri della gente di qua - che intanto passeggiano come alla fiera, seguiti da mogli coi pantaloni a sbuffo, e se t'incontrano sorridono lanciando il «salaamaleikum». «Vedi dov'erano i mujaheddin?». Insiste, l'ufficiale-propa- gandista. Dietro la quinta di catapecchie che domina l'ingrosso in città ci sono trincee, armi abbandonato, e tutto il povero armamentario di una vita di prima linea. Lanciarazzi o mitra lasciati por teira, una carica per «Rpg» con istruzioni in lingua araba, e poi pagine con le foto porno di «Nadina, magic queen», un distintivo del quinto Korpus, pacchetti di sigarette «Partner» lasciati a metà. Dev'essere stata davvero precipitosa, la fuga. Un cane che sta morendo, ansima, o si abbandona sul selciato, latrando rauco, mentre nessuno può dargli retta. Un vecchio con grande barba bianca e vecchia divisa dell'esercito comunista di Jugoslavia. «Se sono comunista? Siili Se sono musulmano? Siiii, ma di Babo Abdic... Se appartengo alle Krajne? Sìiii: lo Krajne sono di tutti noi». Si chiama Iassem Pandic, quel vecchio: ha raccontato orgoglioso di aver già perso due figli in questa guerra e di avere sedici nipoti che combattono. Ha parlato fioro della «gente di Kordun». Sì, si chiama «Kordun» questa regione, e il nomo significa proprio cordono, argino. Furono o no, le Krajne, il primo cordone posto dagli Asburgo contro l'invasione turca, la terra dei contadini-guerrieri chiamati dalla Serbia, duro luogo del sangue e del sacrificio? Ecco, due giorni nella sacca di Bihac servono a capire soprattutto questo: che nelle valli nebbiose dello Krajne, nella distesa di case annerite, nel buio totale che di notte avvolge queste contrade, lo spirito della «zàdruga» continua ad agitarsi, anzi si rafforza. «Zàdruga», ossia famiglia e tribù cetnica, comunità di vita e di sangue, mito rafforzato da secoli di guerra e di isolamento. All'ospedale di Vojcic (un ex albergo riadattato) fra musulmani di Bosnia e musulmani di Abdic feriti, un medico venuto da Belgrado mi aveva detto: «Io abitavo a Sisak, due anni fa dovetti scappare, ho perso tutto. Ma se adesso i croati pensano di prendersi le Krajne, s'illudono. Adesso noi siamo alleati ai musulmani di Abdic. Domani, potremmo avere qui le armate di Milosevic». Giuseppe Zaccaria Al loro fianco i musulmani «traditori» di Abdic, di fronte il nemico, i «mujaheddin» Una donna piange «Ho visto mio figlio senza una gamba» Bandiera serba sul viale «Vittime del fascismo» Un prigioniero musulmano costretto a cantare in tv un inno serbo

Luoghi citati: Belgrado, Bosnia, Croazia, Jugoslavia, Serbia, Velika Kladusa