Ma il lavoro parziale non è mai di «serie B»
ANALISI ANALISI Ma il lavoro parziale non è mai di «serie B» DUE milioni di posti di lavoro nella sola Germania potrebbero essere creati se il lavoro a tempo parziale venisse adottato in modo ampiamente diffuso. Questo il risultato clamoroso di uno studio di Helmut Hagemann, ricercatore della McKinsey. La quasi totalità delle industrie europee ed americane nell'ultimo decennio è stata interessata da un grande processo di riduzione di costi. Questo ha significato razionalizzazioni, ristrutturazioni, re-engineering, quasi sempre risoltisi in una massiccia riduzione della forza lavoro, con ingentissimi costi per le imprese e per lo Stato: e per i lavoratori che ne sono stati colpiti. La strada della riduzione dell'orario di lavoro è stata, tranne pochissime eccezioni, subita dalle aziende, non valutata per le sue potenzialità, mentre da parte sindacale è stata tradotta nell'impraticabile slogan del «lavorare meno, lavorare tutti». Invece, secondo Hagemann, l'applicazione del tempo parziale potrebbe avere risultati incredibilmente positivi nella creazione di posti di lavoro: estrapolando i 3000 casi analizzati in 5 aziende in vari settori industriali nel corso di due anni, ha dedotto: che il 60% dei lavori sono «divisibili», dai punti di vista economico, organizzativo e tecnico; che il 38% dei dipendenti potrebbero essere interessati a passare al tempo parziale; quindi che nel 24% dei casi la fattibilità organizzativa e la disponibilità del personale avrebbero un punto d'incontro. Questa percentuale, applicata ai 23,6 milioni di occupati della Germania Occidentale, dà appunto 1,4 nuovi posti di lavoro a tempo pieno oppure 1.9 milioni a tempo parziale. Non solo, ma ciò risulterebbe in un notevole guadagno per le aziende: i vantaggi in temimi di maggiore produttività, minore assenteismo, maggiore uso del capitale fisso, rapidità nel rispondere alle variazioni della domanda, superano i maggiori costi organizzativi, e lasciano alle aziende un margine valutato del 20% sul costo del personale che passa al tempo parziale. Senza contare che le aziende risparmierebbero in incentivi alla mobilità, ed eviterebbero le tensioni e la demotivazione che si accompagnano alle massicce riduzioni di personale. Perché la ricetta funzioni, è essenziale che essa venga usata correttamente, in particolare che vengano rispettate tre condizioni: 1. La partecipazione deve essere volontaria: l'impresa ed il lavoratore devono individuare dove c'è un interesse comune a dividere il lavoro in moduli a tempo parziale. 2. Il programma non si presta a soluzioni generalizzate, ma deve partire dall'analisi dei posti di lavoro in cui l'uso del tempo parziale può portare a significativi aumenti di produttività. 3. Il programma avrà successo se sarà adottato da una larga parte della popolazione impiegata, e ciò richiede che la ridu- zione di paga sia sensibilmente inferiore alla riduzione del tempo lavorativo. Per le imprese, lo studio valuta il vantaggio dal 3 al 5% dei costi del personale e del capitale (senza considerare i risparmi sui costi della messa in mobilità ed i vantaggi di non perdere un prezioso capitale umano). Si giustifica dunque che il tema sia affrontato dalle dirigenze aziendali come si fa per i progetti strategici: valutando il potenziale di maggiore produttività; elaborando con le organizzazioni dei lavoratori adeguati schemi di lavoro; impegnandosi a creare un clima aziendale favorevole alla sua accettazione. Quest'ultimo è l'argomento cruciale: i lavori a tempo parziale sono sovente considerati dai lavoratori come di seconda classe, mentre i dirigenti li considerano disruptivi di pratiche organizzative consolidate. Superare questo stigma negativo richiede quindi uno sforzo non indifferente nel ridisegnare l'organizzazione del lavoro, ma soprattutto nel comunicarne le condizioni. Per evitare che risulti discriminante verso i lavoratori a tempo pieno, bisogna che i vantaggi per l'azienda del ricorso al tempo parziale siano chiaramente misurabili; perché sia accettabile, bisogna che il passaggio al tempo parziale sia reversibile, non discriminante ai fini degli aumenti di stipendio o dell'avanzamento in carriera; ovviamente i lavoratori che lo accettano non devono essere i primi ad incorrere nel licenziamento nel caso in cui l'azienda dovesse ricorrervi. E' ovvio che i risultati della ricerca non sono immediatamente trasferibili dalla Germania all'Italia: essi dipendono innanzitutto dal livello assoluto del salario (è proprio questo che ha consentito la sua implementazione in VW); dal regime pensionistico, che non deve penalizzare troppo chi sceglie di strutturare una parte della propria vita di lavoro a tempo parziale; da come i sussudi di disoccupazione sono legati al salario dell'ultimo periodo; dal rapporto tra l'ammontare dei sussidi a quello del salario parziale; l'uso di questo strumento richiederebbe dunque interventi anche sul piano legislativo. Ma per le ragioni di fondo, soprattutto per il suo potenziale per aumentare produttività e flessibilità, meriterebbe che uno studio ne verificasse la portata nel contesto italiano. Soprattutto meriterebbe un atteggiamento meno pregiudizialmente negativo da parte sia degli imprenditori che delle organizzazioni dei lavoratori. Certi slogan discendono dalla errata concezione che le condizioni di mercato fissino in modo deterministico lo stock di lavoro (e di massa salariale) possibile e che il problema sia quello di come dividerlo. Invece, le fluttuazioni della domanda sono la natura stessa del mercato: la sua dimensione dipende anche dalla capacità delle aziende di saperle sfruttare. Franco Debenedetti atti |
Persone citate: Franco Debenedetti, Hagemann, Helmut Hagemann
Luoghi citati: Germania, Germania Occidentale, Italia
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