L'Orni ha un piano: ritirata di Giuseppe Zaccaria

L'Orni ha un piano: ritirata L'Orni ha un piano: ritirata Igenerali hanno già pronti tre scenari L'OFFENSIVA FINALE ZAGABRIA DAL NOSTRO INVIATO Prima o poi doveva accadere: sta succedendo intorno a Bihac. Intorno alla città che coi suoi appelli sempre più disperati e inutili, la sua gente asserragliata nelle cantine, il suo battaglioneostaggio di «caschi blu», sta segnando il più chiaro e vergognoso dei fallimenti nella storia delle Nazioni Unite. Un tonfo così indiscutibile e netto, da rendere attuale e forse imminente una decisione fino a ieri remotissima: il ritiro del contingente di pace dalla ex Jugoslavia. «Adesso, una volta risolto il caso Bihac, per le Nazioni Unite la prima cosa dovrebbe essere organizzare una dignitosa ritirata». Chiunque di noi avrà espresso decine di volte lo stesso commento: adesso però a farlo è un'autorevole fonte dell'«United Nations Protection Force» a Sarajevo. E' vero, di fronte Bosnia e Croazia hanno un altro terribile inverno, durante il quale decine di migliaia di persone avranno disperato bisogno di cibo, gasolio, medicinali, ma la stessa fonte aggiunge che l'attività umanitaria «potrebbe non essere possibile». Il generale Michael Rose ripete: «Siamo giunti al limite», la diplomazia 6 compatta nel commentare che i serbi hanno scoperto l'ennesimo «bluff» della Nato. Da Zagabria il generale De Lapresle, comandante dell'Unprofor - già ribattezzata «Unsprofor», dove la «esse» in più sta per «self protection» - non fa che chiedere agli aerei alleati di non intervenire, per non compromettere la vita dei suoi uomini. Questi ultimi si sono ormai trasformati in una legione straniera, sperduta fra un centinaio di fortini, isolata in un territorio ostile. Sta per suonare l'ora della ritirata, dunque? Fino a ieri, il solo ipotizzarlo sarebbe stato avventato: nelle ultime quarantott'ore invece un fitto incrocio di contatti fra Zagabria, New York e il comando Nato di Bagnoli sta cominciando a rendere la prospettiva sempre più concreta. Pochi giorni ancora, e l'ordine di rientro per i 23 mila «caschi blu» che tremano al freddo e alle detonazioni della ex Jugoslavia potrebbe diventare operativo. Sono tre, i piani d'evacuazione disegnati dalle Nazioni Unite. Esistono da quasi otto mesi, e sono stati aggiornati via via che l'intervento assumeva dimensioni sempre più estese sul piano numerico e territoriale. Una sorta di progetto a tre velocità, inizialmente messo a punto dal generale Me Innis, già vicecomandante canadese della forza internazionale, e poi rivisto dai suoi successori. Il problema, allora come adesso, era di capire con quanta rapidità i «caschi blu» avrebbero dovuto lasciare il terreno. Una ritirata «dignitosa» può compiersi via nave (per tutti i battaglioni schierati verso l'Adriatico, almeno) e richiederebbe circa sei mesi di tempo, una più frettolosa prevede l'assistenza di più di un ponte aereo. Sulla terza ipotesi, meglio non fare previsioni: un'eventuale «ritirata rapida» contiene già tutti gli elementi che possono far temere una nuova catastrofe. In questo almeno, il «piano Me Innis» non è affatto superato. Una veloce evacuazione di battaglioni di stanza nel centro O' nel Nord della Bosnia - prevede¬ va - costringerebbe la Nato a nuovi bombardamenti, questa volta chiaramente offensivi, per aprire «corridoi» alle truppe. Qualsiasi spostamento dei «caschi blu» verso l'interno potrebbe infrangersi sui territori conquistati dai serbi, che tagliano la Croazia in due, costeggiano l'interno della Bosnia e si congiungono infine alla nuova, piccola Jugoslavia di Belgrado. Sono argomenti di cui nei prossimi giorni si discuterà parecchio. E probabilmente le consultazioni che Nato e Unprofor continuano a condurre serviranno anche a meglio comprendere l'intervento «precauzionale» delle navi americane che stanno raggiungendo l'Adriatico con duemila «marines». Quella che I all'inizio pareva solo una spiega! zione di circostanza («Le navi ■ sono lì solo per portare aiuto in I caso di evacuazione») comincia a rivelarsi quasi un'anticipazione. Resta da stabilire chi potrebbe ritirarsi per primo, chi dopo, e chi magari no. Tre mesi fa (e ancora ai primi di novembre, quando la decisione Usa di revocare l'embargo verso la Bosnia è diventata ufficiale), Francia e Inghilterra avevano ripetuto che erano pronte a chiamarsi fuori. Il ministro degli Esteri spagnolo aveva addirittura ordinato al battaglione di stanza a Mostar di prepararsi a un improvviso ordine di rimpatrio. Altri settori del contingente dipendono però da governi che di abbandonare gli islamici di Bosnia al loro destino non vogliono sentir parlare: è il caso della Turchia, della Malesia, del Pakistan. Difficile è immaginare fin d'ora come potrebbero svolgersi le cose. Eppure, un'occhiata alle ultime carte dell'Unprofor quelle che illustrano la disposizione dei battaglioni in Croazia e Bosnia - rivela un dettaglio illuminante. Nella Bosnia centrale ed in quella meridionale, da qualche tempo è come se la disposizione delle unità fosse stata decisa in base a valutazioni di tipo religioso. Guardate Sarajevo. Presidiata al suo interno da «caschi blu» francesi, controllata da canadesi verso l'aeroporto e intorno ai depositi di armi pesanti, poi ci sono gli ucraini. Per il resto la città è circondata da battaglioni islamici. Da Ovest ad Est, turchi, malesi, pakistani, ancora turchi. Una sorta di mezzaluna che, anche sulle mappe, avvolge la città come a proteggerla, circonda parte delle alture presidiate dai serbi. Sono spostamenti, questi ultimi, che a molti erano sfuggiti. Chissà che in qualche modo non tratteggino il futuro prossimo. Giuseppe Zaccaria

Persone citate: De Lapresle, Michael Rose