Quell'identikit dimenticato in questura

Quell'identikit dimenticato in questura Quell'identikit dimenticato in questura Storia di un agente non sempre al di sopra di ogni sospetto 0 DELL' BOLOGNA DAL NOSTRO INVIATO Bastava guardare meglio. In due direzioni. Bastava guardare la storia personale del poliziotto Roberto Savi, per farsi venire il dubbio che non fosse un agente al di sopra di ogni sospetto. Bastava guardare a tutta la vicenda della Uno bianca per cominciare a credere (e in molti l'hanno fatto, e da tempo) che non fossero le gesta di comuni banditi (clan dei catanesi o avventurosi gangster di provincia, come si è tentato in momenti diversi di far credere) ma quelle di personaggi collegati alle forze dell'ordine, schegge impazzite di apparati statali. Adesso basta dare un'altra occhiata a quello che è accaduto per convincersi che non è finita qui. L'epopea della Uno bianca non termina con i fratelli Savi. La storia del poliziotto-rapinatore è affascinante, ma è solo il primo aspetto che emerge. Ci saranno altre sorprese, salvo richiudere gli occhi. Debbono averlo fatto spesso, alla questura di Bologna, davanti all'identikit dei banditi della Uno bianca. Accanto a quello del «Gigante» (rivelatosi poi Fabio Savi, fratellastro di Roberto) c'era, appeso in bella evidenza, un altro ritratto che, ammettono ora i dirigenti della Criminalpol, riproduce perfettamente le fattezze dell'agente Savi Roberto. In polizia dal '76, a Bologna dal '77. Sposato. Padre di un bambino di dieci anni. Abitante in un appartamento di quaranta metri quadrati (camera, cucina con la poltrona letto per il bambino, bagno) comperato undici anni fa alla periferia di Bologna. «Su di lui, come professionista, nessun addebito», dicono in conferenza stampa i suoi superiori. Proprio vero? Non è forse lui l'agente condannato a venti giorni per maltrattamenti a un detenuto? Risulta infatti che, dopo l'arresto di un extracomunitario e dopo averlo condotto in cella, avrebbe infierito su di lui, tra l'altro rasandogli i capelli e gridandogli tutto il suo disprezzo. Aveva respinto così le accuse: «Gli ho voluto fare un piacere, nel tentativo di scappare si era nascosto sotto un'auto e si era sporcato i capelli. Gli ho tagliato una ciocca che si era tutta appiccicata». Uno che odia gli extracomunitari, come i killer che spararono ai senegalesi a Rimini. Nessun addebito? E allora perché un collega avrebbe fatto rapporto raccontando che, mentre viaggiavano sulla stessa auto, erano stati chiamati ad intervenire per una rapina e lui, Savi Roberto, aveva ordinato di prendere la direzione opposta dicendo: «Lì è meglio non andare». Da un anno e mezzo lo avevano tolto dalle volanti e messo di servizio al 113. Se a Bologna chiamavate perché sentivate un ladro entrarvi in casa, rispondeva lui, l'uomo che avrebbe commesso almeno dodici rapine, che teneva in casa un arsenale, che viaggiava con una seconda pistola alla cinta, oltre a quella nella fondina. Rispondeva lui e chissà cosa succedeva a quel punto. Forse riappendeva e al collega spiegava: hanno sbagliato numero. Chissà se è così che faceva. Bastava guardare. E adesso non si può non riguardare la strana storia della Uno bianca, della banda della Coop, degli episodi di criminalità avvenuti in Emilia-Romagna, mai spiegati o arrivati a soluzioni improbabili quanto lo sarebbe, oggi, attribuire tutto a Roberto Savi e suo fratello. E' una scia che viene da lontano. Comincia addirittura il 16 novembre del 1988 quando nella caserma di Bagnare, in provincia di Ravenna, il carabiniere Mantella ammazza 4 commilitoni con 111 colpi e poi si suicida. Bel mistero, spiegato con il raptus di uno che però, lucidamente, da giorni diceva: «Ci uccideranno tutti, i terroristi sono fra noi». Sono quelli gli anni in cui comincia a colpire la «banda delle Coop», che rapina sì supermercati, ma si preoccupa assai più di uccidere con ferocia i testimoni dell'agguato. Banda imprendibile. Anzi no. Li prendono. Grazie all'indagine del fido carabiniere Macauda. Pec- cato che abbia depistato l'inchiesta. Il carabiniere ha portato di persona gli indizi nel casolare dei presunti colpevoli. Solo che ha sbagliato casolare. Stesso indirizzo, ma paese diverso. E il castello di prove cade. Ma perché il carabiniere Macauda voleva creare una falsa pista? E chi è quest'uomo? Il settimanale «Avvenimenti» scopre che è stato adde¬ strato a Napoli, nella compagnia Afsouth, che cooordinava le azioni della rete clandestina Stay behind in Italia. Detto in una parola, chiara e illuminante: Gladio. Un'ultima cosa su Macauda: si riforniva all'armeria di via Volturno, i cui titolari vengono assassinati il 2 maggio del '91 da due killer ieri identificati in Roberto e Fabio Savi. Da quel¬ l'armeria porteranno fuori la Berelta che ha firmato tutte le successive missioni della Uno bianca. Tutte compiute con la stessa tecnica, non a caso descritta come militare da tutti quelli che l'hanno esaminala. Sempre in formazione a tre, secondo uno schema ereditato dai «folli del Brabante», rapinatori belgi che a loro volta l'avevano imparato dai sei-vizi segreti americani: davanti il «pirale» con la pistola in pugno, dietro il «mammut» (il Gigante) con il fucile a pompa per travolgere ogni ostacolo, lo «sniper», il cecchino, a coprire la fuga. E per le operazioni di guerra compiute da tipi così vengono arrestati in un albergo di Gaeta tre balordi che hanno patenti false, pro¬ venienti da uno stock rubato alla Motorizzazione civile di Rovigo. Curioso, una di quelle patenti era anche tra le prove prefabbricate dal carabiniere Macauda per depistare le indagini sulla banda delle Coop. Riguardando gli atti le curiosità non finiscono qui. C'è la deposizione di un carabiniere di Pesaro; Lui gino Bronzini, che dichiara al procuratore di Bologna di essere intervenuto nelle indagini successive a una rapina e di avere intercettato un'auto del tipo di quella usata per il colpo: «Ma il guidatore mi ha esibito una tessera della polizia di Stato. Era un agente in servizio a Pesaro. Chiesi chi era l'altro passeggero e quello mi disse: sono poliziotto anch'io». E poliziotto era anche l'uomo che apparve all'improvviso nel campo nomadi di via Gobetti, dove i killer della Uno bianca avevano sparato tra i nomadi. Si materializzò un quatto d'ora dopo la sparatoria, salutando i colleglli, armato e in borghese. Il fatto strano è che i testimoni raccontano che lui proveniva dalla parte opposta del campo, non da quella da cui erano arrivati gli agenti. Da dove veniva? Da dove vengono questi assassini? Qualche ipotesi? Basta rileggere. Libero Gualtieri, all'epoca presidente della commissione stragi, disse: «Siamo davanti a schegge impazzite degli apparati statali». Oggi abbiamo il nome di una scheggia: Roberto Savi. Basta a spiegare tutto? O aveva ragione quell'anonimo che dichiarò a un giornalista di «Avvenimenti» nel '91 : «Questi sono uomini addestrati dai servizi segreti per attività tipo Gladio e poi prepensionati dopo le indagini avviate dalla magistratura. Sentendosi scaricati, hanno deciso di non stare al gioco e si sono messi in proprio». Sarà così? Basta stare a guardare. Gabriele Romagnoli Condannato per maltrattamenti a un detenuto In passato aveva preso corpo l'ipotesi che nella banda ci fossero anche degli 007 La «Uno» bianca trovata nel '91 in via Apollonia a Torre Prederà 3/3/94 bologna banca di Imola RAPINA 1 IMPIEGATO FERITO TROVATI IN UNALFA 33 6/9/94 bologna banca adriatico DOPO UNA RAPINA BOSSOLI SIMILI A QUELLI USATI Jfc DALLA BANDA HI