Pittore per scordare d'essere ricco

Losanna riscopre l'artista famoso per aver disegnato le scene del «Soldat» di Stravinski Losanna riscopre l'artista famoso per aver disegnato le scene del «Soldat» di Stravinski Pittore per scordare d'essere ricco Auberjonois, genio in fuga come suo cugino Lautrec BLOSANNA ENE' Auberjonois è un curioso pittore: forse più che agli intenditori d'arte è noto ai melomani e ai cultori di Stravinski. Almeno loro reagiscono a quello strano cognome legato aìl'Histoire du soldat, per cui disegnò le scene. Trascurato, invece, nel pantheon sussiegoso della critica. Forse perché non così grande o perché così integralmente svizzero-romando? Auberjonois è uno di quegli artisti alle cui tele quasi sempre ci si avvicina nei musei convinti di poterne individuare l'autore... quasi ce l'hai fatta, ma poi il suo nome è come deglutito da ogni memoria: pensi ad un insolito Gleizes, a Gromaire, ad un giovanile Derain, ad un Kisling, oppure ad un inconsueto Vlaminck. Curiosamente a lui non arrivi quasi mai: ed è paradossale, perché è artista riconoscibilissimo, quasi ripetitivo nelle sue tematiche ossessive. Ben venga dunque questa prima, ammirevole, ampia retrospettiva che Losanna gli dedica, al Musée des Beaux-Arts, completissimo catalogo Skira. Ora - entrati in quel suo impeciato mondo di cenere, così personale e caparbio sarà impossibile in futuro non riconoscerlo più, al primo colpo d'occhio. Quel suo masticare insoddisfatto la spessa materia pittorica, quasi sporca dalla colpa di non saper raggiungere il risultato desiderato; quel portare ossessivamente le cose e i volti alla trincea dello sguardo, sbaragliando le prospettive ed i canoni estetici; quella deformazione espressiva che non è ancora espressionistica e che non vuole abbandonare il realismo, pur calpestando i criteri gradevoli della bellezza. La tavolozza sempre più spenta e contrita, che lavora sordamente contro la facilità del suo talento, calvinisticamente ogni volta soffocato. Enfant gate, sin quasi a trentanni : gentiluomo di campagna, in una ricca famiglia ugonotta che s'era fatta costruire una villa in collina assolutamente identica a quella di Losanna, per non perdere tempo a cambiare abitudini. Il Lager della buona borghesia: ed un trenino privato, che univa le stalle, la panetteria, i porcili alla casa. Sembra un personaggio di Visconti, all'inizio: i cavalli, il violino, intrattiene le zie, distribuisce caricature perché è dotatissimo in disegno (in casa si parla molto poco di un parente scapestrato, che ha nome Henri de Tbulouse-Lautrec). «Da allora ho lavorato senza tregua per rifarmi una nuova pelle e sbarazzarmi dalle tossine di fanciullo-bene». Accanendosi con i suoi toni spenti, color cuoio e peltro, nel calpestare le prospettive: Parmigianini Novecento efauves, sagome gracili e tornite, in un manierismo del malessere sociale, che acceca gli sfondi, quasi a cancellare un passato soffocante. «Quei sinistri pranzi della domenica, in cui ci si ingozzava di cibo...». Fugge, abbandona il violino, sceglie di essere pittore (anche se di notte traduce per sé Eschilo e Joyce), si costruisce una corazza d'antiborghese, eppure conservatore. Rilke lo apprezza, Hodler scambia con lui disegni, lui difende Vallotton. Ama i contadini, ma viaggia nelle capitali colte: Dresda, Parigi, Londra. Certo vede Van Dongen e Kisling, intuisce il magistero nascosto di Derain, lo influenza il cubismo di Braque e di Picasso, anche se rimane lontano dal loro intellettualismo decorativo. «Non si semplifica mai abbastanza, ma se lo si fa troppo si cade nel decorativismo». Anche lui vuole semplificare, ma lo fa con rudezza più provocatoria, paesana: certi taccuini di guerra, certi volti appuntiti e come squadrati fanno pensare all'antigrazioso di Carrà, di Soffici, a Rosai. Quando viene in Italia, si abbandona ai d'après: ma è capace di leggere in Beato Angelico e in Poussin anche una violenza rappresa, contratta. Parla sempre di equilibrio, è ossessionato dalla moralità delle forme: ma le sue forme hanno una statica perielitante, un baricentro instabile. «Mi rendo conto che tutte le emozioni vere dipendono dalla tecnica». E' il classico pittore dalle date sovrapposte: ritocca, cancella, tormenta i suoi quadri sino alla disperazione; anche dei collezionisti, cui vuole spesso rimaneggiare un dettaglio d'un quadro già santificato alla parete. E magari li rovi- na per sempre. Quando un suo Domatore sta per entrare al Museo di Basilea si oppone, perché teme che l'uomo baffuto abbia una sfumatura troppo caricaturale. Anche lui esplora il mondo dei saltimbanchi, ma in un modo molto diverso da Cocteau, o da Picasso: gli interessa la pésanteur della vita afflitta, nuda, la gabbia: anche quando ci si libra come clown o acrobati. E' questo che descrive, in un gusto molto alla Ramuz (il letterato populista che collabora con lui alì'Histoire du soldat): malatini, sanatori, vecchie Beghine e Cenciaiuoli ubriachi. Stradine che si sollevano come serpenti, la sabbiosa desolazione d'una corrida. Alla natura - topos obbligato della sua Svizzera - preferisce la desolazione del lavoro: figure che sembrano ondeggiare nel sudore d'una candela. Sacralizza i paesani in una monumentalità laica e schietta, alla Rouault: idoli etruschi entro una luce inceppata, rubata, che non viene dal sole, ma nasce dal dolore delle cose stesse. Persino il suo Ubu Roi, illustrato per Jarry, ha tratti contadini, da pinguino scaraventato in un'aia del Vallese. Un primitivismo sprezzante, che lo porta persino a dipingere sul vetro: vorrebbe raggiungere un'arte da decoratore di fiera, che non esiga nemmeno la firma. Si può immaginare quale choc ì'Histoire du soldat, col suo carro di Tespi ed i personaggi sommari da stampina d'Epinal - il diavolo o il soldatino che marcia, Trappelsito e Pievalmare, come traduceva Savinio, abbia scatenato nell'ambiente schizzùioso e cosmopolita dei Ballets di Diaghilev e Bakst. Anche se non suona più lo stregato violino, Auberjonois continua a nutrirsi di musica, è amico di Stravinski]', di Ansermet (che disegna durante i concerti alla Salle Pleyel), di Magaloff e Markevich: e per capire le sue dissonanze cromatiche, quegli ocra che offendono i grigi, quei muschiati colori sottobosco, o foglia morta, quel cacofonico esasperare i valori plastici, è proficuo pensare alle Noces di Stravinskij, o a certi stridori da corno inglese di Honegger. «Si ha bisogno dei vuoti (che sono dei pieni, poi) come la musica delle pause». L'Omaggio all'Olympia di Manet si celebra in un'atmosfera di bruma, da bistrot: il fondo picchiettato, alla Bonnard, s'impasta con i contorni delle figure, gettate in superficie (di lì sembra aver origine certa gracilità itterica dei nostri Guidi, di Sassu e di Birolli). Ma anche Balthus sembra partire da quelle anchilosate partite domestiche. Suo padre, Erich Klossowski, era amico del pittore, che gli scriveva: «Vivo come un topo». Misantropo, tormentato, litiga con le mogli, gli amici. Vecchio scrive: «Non voglio avere ricordi, solo una poltrona ed un gatto castrato». Si autoritrae come un derelitto, le mani inutili, scese a terra, rinunziatarie. Oppure come prigioniero. Ha scelto di vivere di fronte ad un carcere, perché vuole imparare a rappresentare quella luce: «luminosa di scurità». «Ritratto dell'artista», olio su tela del 1948 di René Auberjonois

Luoghi citati: Basilea, Dresda, Italia, Londra, Parigi, Svizzera