PICCOLI RE di Luciano Curino

PICCOLI RE PICCOLI RE Gran Bretagna: il declino spiegato da Oxford messa di un'espansione politico-economica pari solo a quella dell'impero romano) fino al 1992, cioè a dopo la caduta del governo Thatcher; perché è il libro, in un certo senso, di un anglo-italiano, che infatti esce in anteprima in Italia, non senza riferimenti anche alla nostra vicenda storico-politica; e infine perché è la storia (molto oggettiva, molto documentata, come si conviene a un testo che si rivolge soprattutto a un pubblico universitario) di un fenomeno grandioso, che è il passaggio da una indiscutibile supremazia mondiale a una condizione nazionale incerta, con segni di perdita d'identità e di disgregazione sociale. E' chiaro che in quest'ultimo ambito rientra anche la crisi d'immagine e di sostanza della più famosa monarchia del mondo. UNA Repubblica britannica? Perché no, dice il principe Filippo di Edimburgo, consorte della regina Elisabetta II. «Sarebbe un'alternativa perfettamente ragionevole alla monarchia costituzionale, che può sopravvivere solo finché il popolo la vuole». Risposta a una domanda del Daily Telegraph, in questi tempi burrascosi per la Royal Family, tra uno scandalo e l'altro. Fair-play inglese al più alto livello. E il popolo? Commentando l'intervista di Filippo, VEconomist cita questi dati. Dieci anni fa, l'85-90 per cento dei cittadini britannici si diceva favorevole al mantenimento della monarchia, ora la percentuale è scesa al 70-75. Che è ancora alta. Ma, alla domanda se sia prevedibile un re o una regina, non ora ma tra mezzo secolo, risponde sì tra il 35 e il 50 per cento, contro il 70 di solo quattro anni fa. Il più importante settimanale inglese conclude che «il tempo della monarchia è passato» o sta passando, e che il solo argomento contrario è se valga la pena affrontare il trauma, inevitabile, di un grande cambiamento: la parola andrebbe comunque data ai cittadini, in un referendum. Ma, se si tratta solo dei costumi privati dei monarchi, Matthew Fforde, un giovane storico di Oxford che ora vive e insegna in Italia, ricorda nella sua Storia della Gran Bretagna ora edita da Laterza - che Giorgio IV, che regnò dal 1820 al 1830, «condusse una vita scandalosa: fra le sue eccentricità (...) la visita da lui compiuta a Edimburgo con indosso un kilt e una calzamaglia rosa». Alla sua morte, il Times scrisse che «nessun individuo fu mai rimpianto meno di questo re dai suoi simili». E tuttavia ora è diverso, perché, dice ancora ì'Economist, l'esplosione dei massmedia, della tv, eccetera, «ha reso la regalità visibile» alla totalità dei sudditi, anche nelle sue debolezze umane, e ha fatto diventare ancora più precario e meno facilmente accettabile un potere fondato sul diritto ereditario. E su questo si è tutti d'accordo. Scrivendo o parlando delle «isole britanniche», di questi tempi, è impossibile prescindere dalle cronache rosa (come si diceva una volta, ora l'espressione è «a luci rosse») sulla famiglia reale. Ma il «caso Inghilterra» è di tutt'altra natura e di tutt'altro spessore. Ed è questo il tema del libro di Fforde, che si segnala per tre ragioni: perché è una storia deila Gran Bretagna che va dal 1832 (cioè dal decollo della rivoluzione industriale, pre¬ Augusto Romano Salvatore Natoli La felicità Feltrinelli pp. 253. L. 32.000 Sabino Àcquaviva Progettare la felicità Laterza pp. 122. L. 9.000 Rifiuto della modernità Le cause del declino sono esaminate in tutti i dettagli socioeconomici, con abbondanza di statistiche sulla produzione e i commerci, ma il succo è che si è passati da una condizione imperiale (sfruttata sino in fondo, ancorché non ispirata da una reale strategia di comando) a una forma di lassismo, se non di vero e proprio «rifiuto della modernità». Un'ondata conservatrice, nei metodi e nella mentalità, che ha coinvolto i «tories» come i laboristi (un po' meno la «terza forza» liberal-democratica, peraltro penalizzata oltre misura dal sistema elettorale, che ora piace tanto in Italia); che ha coinvolto la classe imprenditoriale come i sindacati. Un fenomeno di stagnazione storica, che il thatcherismo ha cercato di battere, ma senza riuscirci realmente, anche per miopia «isolana» nei confronti della nuova, grande realtà, l'integrazione europea. E, come risultato sociale, la perdita di coesione, il declino del senso della comunità, dell'«antico e duraturo impulso verso la rispettabilità». Se il «Welfare State», l'assistenza garantita dall'alto, ha favorito la tendenza «all'anonimato», il ritorno dei «tories» non ha saputo o potuto ridestare il vecchio spirito creativo, o quanto meno il gusto dell'avventura. In questo tramonto, investito dall'esplosione spesso volgare dei media, rischia di affogare la Royal Family, tra la curiosità senza passione dei suoi sudditi. Aldo Rizzo Matthew Fforde Storia della Gran Bretagna 1832-1992 Laterza, pp. 433. L 45.000 Silvio Bertoldi pubblica da /Uzzoli «Camicia nera» che lui stesso, in un ufficio di Palazzo Venezia, disegnava le proprie uniformi. Gliele confezionava Caraceni, il principe dei sarti romani. Le prove avvenivano nel salone del Mappamondo. Forse, questo di Bertoldi è il solo libro sul fascismo che dica di Mussolini tutto solo in un ufficio intento a disegnare uniformi. L'autore, che conosce come pochi la storia del Ventennio e che possiede l'arte di raccontare, ricrea lo spirito dell'epoca ricostruendo i grandi fatti e dà molto spazio a quelli minori della vita quotidiana, in genere poco conosciuti o ignorati. «Il vestito del fascista» e «La moda del Duce», di cui si è dato qualche cenno, sono due dei quindici capitoli di un libro pieno di sorprese. Luciano Curino Silvio Bertoldi Camicia nera Rizzoli pp. 267, L 26.000