Tutte le Tribù di Maccari troppo ardite per Mussolini

Tutte le Tribù di Maccari, troppo ardite per Mussolini Tutte le Tribù di Maccari, troppo ardite per Mussolini serio, dato che abbiamo traccia di una grande incavolatura di Mino Maccari, quando la rivista ufficiale del «sindacato fascista degli scrittori» Il Raduno si azzardo a bandire: «l'Italia nuova nasce da Emilio Salgari», e ad annunciarne la preparazione dell'edizione nazionale degli scritti. In tale occasione Mino Maccari, fornito di una buona educazione classica e letteraria italiana dal padre Latino, umanista, insorse al grido: «L'Italia moderna nasce da Leopardi!» A ogni modo, un elenco assortito delle Tribù soppresse come si può leggerlo nel Selvaggio, del 30 settembre 1925, consta di ben quarantaquattro gruppi pittoreschi almeno a parole decisi a tutto e a qualcosa di più, ma messi a tacere, soppressi per ubbidienza politica. L'adunata delle Tribù nel Ferragosto di quell'anno si era svolta molto bene a Poggibonsi ed era stata animata dalla partecipazione di Italo Balbo, irresistibile ras di Ferrara, presentato dall'entusiasta Mino Maccari come «Pizzo di Ferro, Gran Stregone della Tribù, Pestilenzia». Ma l'organizzazione dei ribelli aveva un eccessivo successo, così, alla fine delle feste, Mussolini aveva fatto comunicare verbalmente a Mino Maccari che le Tribù, ormai, erano troppe. Mino Maccari ne aveva sacrificate appunto quarantaquattro, per salvarne qualcuna. Ma in ottobre, Mussolini aveva deciso lo scioglimento di ogni squadra fascista, perché anche se nel marasma succeduto al delitto Matteotti erano stati solo gli squadristi a tener ormai botta, dopo che il discorso del 3 gennaio 1925 aveva inaugurato la stagione della dittatura, c'era soprattutto un gran bisogno di sanatoria dei contrasti, di omologazione rassicurante e conformità. Così anche per le Tribù dei selvaggi fu finita. «Camerati! le Tribù dei Selvaggi che offrimmo con puro cuore al Fascismo e al Duce, quali fierissime affermazioni spirituali d'intransigenza rivoluzionaria, sono disciolte. Un atto di dedizione assoluta e di disciplina ferrea, in ossequio al volere delle supreme gerarchie del Partito Fascista, chiude e suggella il ciclo del nostro movimento», scrisse Mino Maccari sul Selvaggio del 23 ottobre 1925, e la scritta che in copertina definiva la pubblicazione come «Battagliero fascista» risultò adeguatamente cambiata in una più vaga ma cautelare dichiarazione: «Salvatico è colui che si salva». Mino Maccari si era reso conto che ormai gli era praticabile solo la cultura. Quello era il campo su cui concentrare l'azione. E anche Leo Longanesi glielo aveva confermato con una «Lettera ai Selvaggi» datata 1 dicembre 1925 in cui dichiarava ai destinatari che il loro grande merito era quello di avere affermato una cultura nuova. «Dico nuova perché non c'è niente nel nostro Selvaggio che puzzi di tuba, di medaglietta, di tedescheria Crociana o francesismo d'Annunziano come molti giornali di parte nostra; nuova perché siamo gli unici a possedere una mentalità rivoluzionaria...». E la cultura era soprattutto l'arte, come ci documentano le lettere di Mino Maccari a Ottone Rosai, raccolte e commentate da Vittoria Corti in Rosai e Maccari (Giorgi &• Gambi, 1994): Colle 16 ottobre 1926: «Caro Ottone, sono molto contento di quel che ti ha detto Soffici e al più presto verrò a Firenze per mettermi d'accordo con te e stabilire tutto il programma. Bisognerà prendere la cosa molto ma molto sul serio, e distribuirci i compiti, perché il Selvaggio deve essere la nostra forza e il mezzo per imporci a tutti i mascalzoni che per ora trionfano. Ma per far questo bisogna mettersi sotto di buona lena per non correre il rischio di fare un buco nell'acqua a tutto nostro danno. Una pagina - come hai visto - la dedico interamente al disegno e ai vari problemi artistici -. L'Omino di bronzo si deve occupare di portare alla ribalta tutte le vergogne e le stupidaggini che in materia d'arte si dicono e si fanno, e costì tanto te che Lega potete far sonare le vostre campane attaccando o valorizzando chi se lo merita. Io penso a Strapaese. Tramontano a un po' di politica, e così si tira avanti. Quel che ci manca è una buona organizzazione, ma per far questo non siamo noi i tipi: occorrono i letteratoidi che conoscono tutti gli ambienti, che bazzicano un po' tutti, cosa che a noi non piace. Non di meno cercherò io di rimediare, mi son già fornito di molti indirizzi anche per l'estero: manderò una specie di circolare, farò delle cartoline. Perché molta gente non sa come fare a trovare il Selvaggio e ne avrebbe grande voglia. Per questo numero tu mi devi dare uno o due dei più bei disegni che tu abbia, ma bellissimi. Anche io ho lavorato e metterò qualcosa di buono. Lega mi ha già portato due cose; bisognerebbe convincere Carrà a mandare roba...». Siena, 17 marzo 1927: «Leggo nella tua lettera molte frasi di sconforto. Caro Ottone, qui bisogna decidersi, pigliare una posizione e su quella fermarsi duri come pioli. Scegliere gli amici, fare i patti e rompere i ponti con tutti gli altri. Oppure buttarsi nella merda anche noi rubare e far porcherie. Nelle condizioni d'oggi noi siamo i fessi e tali da esser presi pel culo da tutto il mondo, e prima che dagli altri dai nostri amici ma parleremo a lungo quando verrò. Intanto ti ringrazio dell'aiuto e mi rinfido in te. Un abbraccio di cuore...». Colle, 20 settembre 1927: «Caro Ottone, se tu avessi calcolato il dispiacere che mi ha causato la tua lettera, avresti aspettato a scrivermi. Tu sai in quali condizioni io impagino il giornale, e l'arbitrio che all'ultimo momento, quando io son partito, si pigliano i tipografi. Io avevo passato con calda raccomandazione quell'inserzione: /// allo, Ma/aparlr Sol lo: Marcali. I fianco un disemio dell'artista Lartista-scrittore si staccò, trentenne, dal foglio battagliero per andare alla Stampa: «Sapete, tengo famiglia» anzi, l'avevo ricopiata in caratteri di scatola e disposta in tre righe. Sono addolorato e amareggiato di quanto è successo. Questo capita a fare un giornale con l'assillo di ripartire e con la furia - e anche permettimi che te lo dica - senza che un cane porti aiuto. Io mi feci prestare 25 lire da Enrico Vallecchi per poter ripartire: non potevo trattenermi oltre per rivedere la quarta pagina. Il giornale rimane (come sai) abbandonato a se stesso all'ultimo momento perché nessuno si cura di dare un'occhiata finale, che poi in certi casi vuol dire tutto, può rimediare anche a cose gravissime. Tu sai poi quante cose mi si affollano nel cervello quando sono a Firenze: notizie, osservazioni, suggerimenti. Soffici che mi accenna a mille cose da sviluppare, le nostre conversazioni che sono un vero lievito d'idee. Con questo capo ripieno io devo veder tutto, lottare con l'imbecillità dei tipografi e con quella poi di Milanesi. Abbonati che non ricevono il giornale, gente che vuol copie, richieste, lettere. Pensa: Bottai non lo riceve! E' roba da matti! Tutti i giorni ne incontro uno che si lamenta e protesta! E che devo fare? Non s'ha che debiti!...». Le lettere di Mino Maccari a Ottone Rosai raccontano la lotta impari, affannosa, ma a volte gloriosa con i) conformismo crescente del regime. Si sbilanciano in snervate voglie di caduta e in rabbiose celebrazioni di rinascita. Ma a un certo punto, ce n'è una diversa da tutte le altre, la lettera che spezza l'idillio. Empoli, 24 marzo 1929: «Caro Ottone, approfitto di quest'ora di sosta, mentre vo a Colle a votare, per raccontarti, com'è mio dovere, le mie faccende; cosa che non ho fatto prima per le mille preoccupazioni e seccature che un mutamento di residenza e di vita porta con sé. Ho accettato di entrare alla redazione della Stampa per questi motivi: primo, perché ho 30 anni sonati e devo pensare alla famiglia, iniziando in un modo qualunque un lavoro; secondo, perché il beniamino di Vallecchi, Chiurco, ha valorizzato a Siena e a Colle i miei nemici, e restar laggiù mi avrebbe portato a sempre maggiori pasticci, miserie e pettegolezzi; terzo, perché l'orario di lavoro (dalle 9,30 alle 2,30 di notte) mi lascerà il pomeriggio per lavorare per conto mio, permettendomi di continuare come prima e con la stessa libertà e tattica il Selvaggio...». Vittoria Corti è durissima in proposito: «Maccari annunziò all'improvviso che partiva per Torino dove gli avevano dato un posto alla Stampa e lo annunziò dopo che i giornali ne avevano data notizia, e per lettera. Non ebbe il coraggio di presentarsi di persona. Nessun accenno aveva fatto prima di questa faccenda che non poteva essere arrivata a conclusione che con lunghe trattative. Cerca di nascondere la sua esultanza (il Selvaggio gli ha portato buoni frutti!), parla del suo dovere di pensare alla famiglia, dice che i giornali hanno sbagliato scrivendo che è stato chiamato a dirigere la terza pagina, quella della cultura e che lui sarà un semplice impiegato. Invece gli avevano dato proprio la terza pagina... E vuol far credere a Rosai che, riguardo al Selvaggio non è cambiato nulla, che tutto rimarrà come prima, come se non saltasse agli occhi che, con la direzione e la redazione a Torino, Rosai sarebbe sparito dal Selvaggio o sarebbe stato ridotto al rango di un collaboratore periferico, il suo lievito che aveva dato vitalità e colore non avrebbe potuto intervenire...». Fa veramente una certa impressione leggere Mino Maccari, invocare, per giustificarsi in qualche modo, quel «tengo famiglia» tanto spesso rinfacciato a Leo Longanesi e da lui stesso all'italiano medio pronto a compiere qualsiasi viltà e qualsiasi infamia pur di assicurare la sopravvivenza ai propri congiunti, ma non è un'impressione del tutto negativa: Mino Maccari, dopotutto, qualche ragione l'aveva nel rivelare un poco d'umanità in contrasto con le tante smargiassate e le tante intemperanze del passato. La causa del Selvaggio, in fin dei conti se l'era inventata lui, e lui l'aveva realizzata, lui l'aveva sopportata, lui, soprattutto, l'aveva patita. E lui avrebbe dovuto poter decidere della propria vita a venire, anche a costo di sbagliare. Volendo essere sinceri, sarebbe stato forse lecito considerare anche la qualità di chi lo aveva convinto al gran passo: il tedesco di Prato: Curzio Suckert Malaparte che cominciava allora a sperimentare l'italianizzazione del suo cognome, omettendo ogni tanto il «Suckert» paterno per conferire alla maggior dignità dello pseudonimo italiano che era stato subito un frequentatore dell'officina del Selvaggio, definito dal suo avversario politico, ma anche suo editore Piero Gobetti, «la più forte penna del fascismo», grande tramista, diventato direttore della Stampa 1' 11 febbraio 1929, e bisognoso di un uomo come Mino Maccari per la temibile avventura piemontese. Mino Maccari fu sedotto e magari abbandonato, lui che nel Selvaggio del 14 settempre 1924 aveva pubblicato l'avvertimento: «Attenzione a Curzio Suckert! Egli dirige La conquista dello Stato, ma temiamo voglia mirare a qualche sua conquista personale». Oraste Del Buono