Sulle Langhe uccise dalla Grande Tempesta

Sulle Langhe uccise dalla Grande Tempesta Sulle Langhe uccise dalla Grande Tempesta Da Alba a Ceva, viaggio fra paesi cancellati e canyon di fango IL MONDO CHE NON ESISTE PIÙ' ALBA DAL NOSTRO INVIATO Un altro mondo. Quello che c'era prima puoi cercarlo nelle pagine dei letterati o nelle memorie dei vecchi. Ti parleranno di dolci declivi e silenti fiumi. Di com'erano le Langhe prima della Tempesta del '94, un nome che pronunceranno con timore reverenziale, anche dopo molti anni. Perché la Tempesta, vedi, è stata capace di cambiare l'immutabile, quello che, credevi, ti saresti portato per sempre negli occhi. Le colline, pensavi, non muoiono. Invece sì. Soccombono, sotto il peso del cielo. E la Tempesta ò capace d'altro, guarda: ha morsicato le strade, spezzalo la schiena dei ponti, creato isole dove c'erano i villaggi, l'atto di ogni uomo un naufrago che annaspa e non sa più di chi fidarsi, tradito dall'acqua e dalla terra. Segui, la rotta del suo smarrimento. Alba degli spettri Il viaggio comincia al termine della notte, come si conviene. E lungo il cammino ti stupisci nel vedere brandelli di nuvole specchiarsi ai lati della strada. Le risaie, pensi. Ma poi ti rendi conto che quelle sono altrove, verso Novara, non qui, alle porte di Alba la dolce. Allora capisci che sono laghi di pioggia, quelli che ti si stendono a fianco e che sotto la superficie nascondono quello che era e che non riemergerà. Le prime luci accendono la città inerte da tre giorni. Fantasmi stupiti camminano per le vie di quella che sembra la periferia di Beirut. Case-palafitte si alternano a ca- se-Cinecittà, di cui è rimasta solo la facciata. Fango come lava. La strada è una pista di fango nel fango. I campi, sabbie mobili. Tra i prigionieri, un pullman e decine di auto. Qualcuna, terrorizzata, è salita sui rami di un albero. In centro, una parata di ruspe. Agli incroci, mezzi della Ma rina con la scritta «Reparto Subacquei». Ad Alba. In ciclo volteggiano elicotteri. Una nebbia bassa gravita a un metro da terra. Nel'aria, miasmi di melma. Un extracomunitario siede allibito su quel chi; resta di un muro. Se è il suo primo autunno italiano dev'essere rimasto indubbiamente colpito. Soccorsi in colonna procedono verso l'epicentro del disastro: la Ferrerò dolciaria, il moloch di Alba. Danni per miliardi. Pare, si dice sottovoce ai cancelli, chi; si sia salvata solo la «linea Nutella», e come espressione sembra un controsenso. Poi resti li, a immaginare scempi ili Kinder cereali ed esplosioni di Kocher pietosamente celati alla vista degli operai che volgono lo sguardo sperduto in cerca di una via d'uscita tra la fabbrica sventrata e la città presidiata. La via d'uscita e verso l'alto. Ti basta salire per trovare il primo sole e quasi credere che la Tempesta sia stata un miraggio: perché Madonna di Como è ancora una cartolina e i vigneti intatti annunciano che qui si produce l'Asti Cinzano. Oh, happy days. Ma non hai che da arrivare a Marene per ritrovare crepe nelle strade, cunette di melma, gusci di case svuotati, un cielo già scuro e una donna con i calzettoni neri che resta li a guardarli tutti, le strade, le case e il cielo, cer¬ cando un segno che possa spiegare. Li come una sentinella senza consegne in un mondo senza più ordine, dove gli alberi scendono sulla strada e si fanno aiuola e dove il fango diventa pianura. C'erano campi, c'erano torrenti, c'erano filari: ora c'è una pianura di fango che intrappola come una carta moschicida le sue prede alle porte di Cortcmilia. E nella trappola cadono: un Tir e un camion giocattolo a non più di dieci metri l'uno dall'altro, sofferenze in scala di un adulto e di un bambino, e tutto quello che la melma ha rubato alla gente di questa valle che ha sopportato l'Acna per un secolo e ora si è presa pure questa Tempesta ladra che si è portata via stoviglie e coperte, giocattoli e sedie. E lo vedi quell'uomo che con le unghie raspa la crosta giallognola e metti; in borsa un altro tesoro: una palla rossa che apparteneva a un bambino e di un altro bambino sarà. E quel bambino lo vedrai un giorno giocare a pochi chilometri da lì, a Cravanzana, dove il bancone del bar adesso ha candele consumate come se si fosse celebrato un rito pagano e per colpa di quel rito, per una magia profana i noccioleti si fossero spostati, come han fatto, di decine di metri sulla terra che non è più terra, ma un percorso del monopoli e basta un soffio per spostare le case, non solo le cose. L'isola di Feisoglio Le cose cambiano, l'hai sempre saputo. Ma credevi ci fosse un limite. Invece, guarda. Questa doveva essere una strada, direzione Feisoglio. E' finita lì, di brutto. Basta. Non c'è più. Sembra un canyon dei cartoni animati, di quelli dove il coyote precipita e lo struzzo si affaccia a guardare giù. Un orlo sdrucito di asfalto nero e poi il vuoto. Per cinquanta metri. Oltre i quali la strada ricomincia, come se niente fosse. E un cartello beffardo annuncia l'ingresso di Feisoglio. La strada che manca è giù, a valle, sbriciolata, tra macerie di noccioleti e di stalle. Feisoglio, un'isola a cui approdi come un naufrago, guadando il fiume d'aria, appigliandoti a speroni di carreggiata, immergendoti nel fango fino a toccare la riva. E allora puoi camminare, senza voltarti a guardare il baratro. Guardando, invece, una casa piena di crepe in bilico sulla collina, che, ti diranno, «stava cento metri più sopra e ce la siamo ritrovata lì». E' scivolata. Giù, verso il centro di quest'isola di 400 sopravvissuti, che non ha nemmeno un sindaco, perché commissariata, che non ha un commissario, perché ò rimasto bloccato a Mondovì, che non ha un medico, nessuno che possa firmare due certificati di morte. Perché l'isola ha due vittime: Dionisio Camera e Angela Vero, in Camera. Morti nel crollo delia stalla. E un loro amico ti fa vedere, disegnandolo sull'asfalto, che la stalla era trenta metri quadrati, e loro erano acquartierati in un angolo, non più di tre metri, per mungere le bestie a lume di candele, e proprio su quei tre metri è crollato il tetto. Vedi, i destini? E il carabiniere Peppino ti accompagna in chiesa, dove li hanno messi, dentro le bare, con le teste bendate per coprire le fratture, e un velo sopra e i parenti in lacrime e uno che dice: «Se a mezzogiorno il medico non è arrivato gli facciamo il funerale e poi ci multino perché ò illegale, se hanno coraggio, quelli dello Stato». E fuori della chiesa, come se l'avessero sentito, gli fanno eco: «Qui lo Stato non è venuto. Passa solo per le tasse», «Se vale il detto "piove governo ladro", allora questo è il governo dei centoquaranta ladroni», «Siamo abbandonati da tre giorni, né acqua, né luce, né cibo. La Protezione civile dov'è?'». Niente luce, non vedono la tv. Non raccontarglielo, allora, della coppia sottosegretariale Gasparri & Carulli, non dirglielo di quando sono apparsi, assisi sul dodicesimo gradino dei Murazzi del Po, lei: «Io ho mandato i fax a tutti, i fax sono più veloci dei telegrammi», lui: «Scontiamo le colpo geologiche di passate amministrazioni», ovvero: piove, vecchio governo ladro. Lascia perdere, prima o poi li salveranno. Ci vuole fiducia. All'ingresso del paese-isola Squadre di subacquei | cercano i dispersi nei laghi di pioggia che hanno coperto campi e villaggi | Una veduta di Cengio assediata dall'acqua

Persone citate: Angela Vero, Carulli, Dionisio Camera, Gasparri, Kinder